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S’immurti immurti PDF Stampa E-mail
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Scritto da Carlo Patatu   
Sabato 01 Novembre 2008 00:31

Quand’ero bambino, nella vigilia di Ognissanti percorrevo, sacchetto in spalla, le strade del paese coi miei compagni. Bussavamo alle porte annunciando in coro: “A s’immurti immurti!”. Contrazione di “pro sos mortos bostros”; e cioè per i vostri defunti. In breve: offriteci qualcosa in suffragio delle anime dei morti. I padroni di casa, che si aspettavano quelle visite, rispondevano solleciti e, senza farsi pregare, infilavano nei nostri sacchetti frutta secca, noci, mandorle e, in taluni casi, qualche dolce fatto in casa: pabassinos, gallette, còzzulos de pistìddu. Più raramente, ci scappava pure qualche monetina da una sesìna (un centesimo di lira) o giù di lì. Poi, via a continuare il giro. Fino al calar del sole, quando rientravo a casa col sacchetto gonfio di quello che, a quei tempi, era un vero e proprio ben di dio.

C’è da dire che, in periodo di guerra, ma anche negli anni immediatamente successivi, la consuetudine di andare per le case a chiedere qualcosa alla vigilia di Ognissanti era da noi molto sentita. E puntualmente rispettata. Per i bambini era una festa. In una stagione in cui caramelle, gelati, pasticcini e cioccolato li si vedeva soltanto illustrati sui libri di scuola, poche càrigas (fichi secchi), qualche prunàlda (prugna secca), chimbe mèndulas e tres nughes (cinque mandorle e tre noci) erano quanto di meglio si poteva desiderare. Un lusso.

Le visite al cimitero, a piangere e pregare sulle tombe dei cari, le si faceva (le si fa ancora oggi) soprattutto il 1. Novembre. I ragazzotti prendevano di mira le signorinette colpendole con lanci di mazzacane, la bacca del cipresso. Il cimitero, più che di fiori, era adorno di lumicini. Che, dopo l’imbrunire, conferivano a quell’oasi di pace un aspetto sinistro, inquietante. Centinaia di fiamelle tremule erano per noi la metafora dei morti che si liberavano dai sepolcri. Per volare chissà dove. In paese non c’erano serre né fiorai. Al bisogno,  provvedevano i fiori di campo o quelli dei rari giardini dell’abitato.

La chiesa era parata interamente a lutto. Un lungo gonfalone di velluto nero copriva l’edicola dell’altare maggiore, nascondendo la statua di San Matteo. Nella navata centrale, tra il pulpito e l’abside, il parroco Dedola, coadiuvato da noi chierichetti, allestiva un catafalco monumentale a due piani. Si trattava di due tavoli sovrapposti (uno grande e uno piccolo), rivestiti di velluto nero rifinito con frange argentate. Gli angoli di quel drappo enorme lambivano il pavimento di ardesia e presentavano le immagini spaventevoli di quattro teschi, che sormontavano due ossa lunghe composte in forma di croce di Sant’Andrea.

Sul lato destro del catafalco, il parroco, che indossava stola e piviale ugualmente neri, sostava in pedi per ore a recitare le orazioni per i defunti. La prosecuzione di quelle (numerose) già dette al cimitero. “Libera me, domine, de morte aeterna in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra...”. Quell’orazione, ripetuta centinaia di volte, non mancava di annoiare i chierichetti. Ma il sacerdote, per tale incombenza, riceveva offerte generose dai fedeli interessati. Pertanto era d’obbligo provvedervi. E il parroco Dedola era uomo preciso, severo e puntuale. Anche troppo, direi.

Ma il ricordo più inquietante è legato alla vigilia del 2 Novembre. La sera precedente, a cena, si cucinavano sempre ciciones (gnocchetti sardi) conditi con sugo e formaggio. A tavola, mia madre apparecchiava un piatto e una sedia in più. Con tanto di posate, bicchiere e tovagliolo. Noi eravamo in otto, ma il desco di posti ne presentava nove. A cena finita, quel piatto in più continuava a rimanere sul tavolo. Che restava apparecchiato per tutta la notte. Le anime dei nostri defunti, così sosteneva mia madre, sarebbero venute da noi a nutrirsi. A mezzanotte ovviamente.

Manco a dirlo, il mattino seguente quel piatto lo ritrovavamo là dove l’avevamo lasciato. Intatto. Forse i morti non avevano gradito. O avevano preferito recarsi altrove. In ogni caso, diceva sempre mia madre, l’usanza andava rispettata. Rigorosamente. Divenuto giovincello, smaliziato e col permesso di rientrare a casa tardi, imparai a prendere il posto dei morti nel far fuori quel piattone di ciciones succulenti e saporiti. Con la complicità, qualche anno dopo, di mio fratello Tore. Che, nel frattempo, aveva capito anch’esso come stavano le cose. E così, al mattino seguente nostra madre trovava il piatto ancora a tavola. Vuoto. Sapeva bene quali “anime” avevano provveduto a ripulirlo di quel che conteneva. Ma non diceva niente al riguardo. Era dell’idea che, come per le preghiere e per le buone azioni, anche in quel caso era sufficiente l’intenzione. E quella lei ce la metteva tutta. Sempre.

Oggi i bambini (pochi) continuano a chiedere s’immurti immurti. Ma senza la spinta emotiva di un tempo. E senza sacchetti. Non va più di moda la frutta secca. Le nuove generazioni gradiscono l’euro. La cena della vigilia è uguale alle altre. Niente piatto in più di ciciones per un convitato di pietra che, lo sanno tutti ormai, non verrà. Non è mai venuto. In chiesa e al cimitero, il sacerdote celebra funzioni collettive e invoca al Signore assoluzioni cumulative per i peccati, gravi e non, commessi in terra da chi è passato a miglior vita. Il cimitero è abbondantemente tappezzato di fiori, di piante, di confezioni floreali variopinte e costose. La gente continua ad affollare quel luogo sacro. Eppure ho l’impressione che, rispetto agli anni della mia infanzia, ora i fedeli preghino di meno. O sbaglio? Può darsi; ma questo a me pare.

 

Ultimo aggiornamento Martedì 01 Dicembre 2009 16:20
 
Commenti (1)
S'immurti immurti
1 Sabato 01 Novembre 2008 22:23
Salvatore Soddu

Carissimo, ho apprezzato molto questo scritto che, riportandomi nei ricordi dei tempi passati, mi ha creato una emozione. Senza radici del passato non si può vivere bene il presente, anzi, più le radici affondano nel terreno e più rigoglioso diventa l'albero. Grazie per avermi riportato negli anni più belli, oggi abbiamo tutto ma ci manca la cosa più bella, il rapporto umano. Quando non avevamo la televisione, la macchina, il frigo pieno, con la scusa di chiedere la cipolla o altro che mancava, si aveva un contatto, nasceva e si coltivava un rapporto di amicizia. Eravamo interdipendenti gli uni degli altri, vivevamo senza rendercene conto una fratellanza che ci faceva condividere il quotidiano, e si sa quando si condivide una gioia o un dolore ne viene diviso il peso. Oggi mi pare che in parte questo manchi. Poi la commemmorazione dei nostri cari e le tradizioni univano di più le persone nelle cose più essenziali che facevano apprezzare più la vita. Ma allo stesso tempo, vivendo bene il presente è utile riflettere sul tempo che passa, o che noi passiamo, augurando che col tempo si cresca nella saggezza pensando a tutto quello che ci unisce e volere di conseguenza creare un rapporto di amicizia, che di fronte al grande passo, quando sarà, possiamo pensare senza rimpianti che quello che ci lascia era un amico vero che spero di ri incontrare un giorno, consapevoli che pur nei nostri limiti, saremo giudicati da Uno che ha dato la sua vita per noi. Grazie amico, compare Carlo delle tue riflessioni che con giusta ironia aiutano a riflettere. Con stima Salvatore
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Condivido le riflessioni del mio caro amico e lo ringrazio. Il tempo passa e noi invecchiamo. Ma ci restano i ricordi, tanti dei quali sono piacevoli, non è vero?. Saluti. c.p.

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