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C’era una volta sa Caddhura de Zaramonte – 3a e ultima parte |
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Giovedì 02 Dicembre 2021 11:31 | |
di Carlo Patatu
a quelle parti il carnevale aveva inizio con largo anticipo: il 13 Dicembre, festa di santa Lucia. Da tale data in poi, ogni sabato sera i giovani s’incamminavano, ovviamente a piedi, per raggiungere l’unica sala da ballo della zona. In località Zìu Mìdri, nella casa di Giovanni Pani, noto Pagliarìnu, il quale l’aveva costruita in vista di un matrimonio che, invece, tardava a venire. Nell’attesa, poiché continuava a vivere a casa del padre, Pagliarìnu l’aveva adibita a sala da ballo. Non tanto per fare soldi (non ce n’erano), quanto per offrire un po’ di svago a quella comunità isolata. Poche sedie, un tavolo per la mescita di vino e birra, qualche bottiglia di Villacidro Rau, un po’ di gassose e aranciate per le donne. Oltre alla novità di quegli anni: la spuma, altrimenti detta birra cin cin. Una sorta di Coca Cola domestica dal sapore dolciastro. L’illuminazione era fornita da una lampada a gas appesa al soffitto. La musica era assicurata da un fisarmonicista dei dintorni; oppure da un vecchio grammofono a corda con dischi a 78 giri che, ampiamente stagionati, accompagnavano alle canzoni un fruscio sgradevole. Ma nessuno ci faceva caso.
Avendo libera l’intera giornata, mi concedevo lunghe passeggiate andando un po’ qua e un po’ là, a far visita a questo o a quello. Più spesso in compagnia di ziu Costantìnu Satta o di Gavino Marras, che frequentava con profitto le mie lezioni serali. Ci trattenevamo a prendere un caffè da zìa Pirìcca[i], che disponeva di una caffettiera prodigiosa, la migliore della zona. O a scambiare quattro chiacchiere, in località Basìle, con zìu Pètru Nicòla Tòrtu, bella figura di patriarca biblico, uomo di campagna saggio e dal tratto signorile. Di tanto in tanto, mi cimentavo sulla scacchiera della dama con Giovanni Spanu, il più anziano dei miei allievi. Sposato e con una mezza dozzina di figli, era persona intelligente e colta. Frequentava con interesse il corso serale per il solo piacere di apprendere cose nuove. Per discutere con qualcuno di qualcosa. La passione per la lettura era una delle sue ragioni di vita. Il che, tuttavia, non deponeva a suo favore in un contesto culturalmente deprivato qual era quello di Tèttile. Burbero solo nell’aspetto, brontolone e dissacratore, aveva spiccato il senso dell’ironia. Le sue battute erano fulminanti. A dama, mai mi è riuscito di batterlo. Muovendo disinvolto le pedine sulla scacchiera, il signor Spanu mostrava di saperne una più del diavolo. Talvolta avevo la sensazione di metterlo in difficoltà. Ma era solo una mia impressione. In realtà, abile com’era, si concedeva pure il lusso di giocare con me come il gatto col topo. Dovetti arrendermi e chinare il capo di fronte alla sua bravura. Nei miei confronti, al gioco della dama era un fuoriclasse.
I mesi trascorsi a Tèttile m’insegnarono un’infinità di cose. Segnatamente ad apprezzare ancor più ciò di cui disponevo in paese, a casa dei miei genitori. Inoltre quel soggiorno fu per me l’occasione per incominciare a comprendere quanto dura fosse la condizione di chi era costretto a lavorare la terra dimorando stabilmente in campagna. In assenza di mezzi celeri di locomozione e di comunicazione, oltre che dei servizi essenziali come l’acqua in casa e l’energia elettrica. Eppure quella gente viveva il proprio stato con dignità e rassegnazione che mi stupivano ogni giorno di più. Pur ingannati un’infinità di volte da promesse eclatanti fatte alla vigilia di ogni competizione elettorale, gli abitanti delle nostre borgate rurali continuavano a sperare che, un giorno o l’altro, qualcuno avrebbe finito col produrre qualcosa di buono anche in loro favore. A quell’esperienza mi fu dato di attingere a piene mani quando, eletto sindaco di Chiaramonti nella primavera del 1970, scelsi di tenere per me la delega per i rapporti e le attività inerenti alle cosiddette frazioni di Su Sàssu. Nei cinque anni di mandato amministrativo ebbi occasione di tornare spesso da loro. Ci andavo almeno una volta al mese e promuovevo periodiche assemblee popolari negli edifici scolastici di San Giuseppe e di Tèttile, costruiti ex novo dalla Giunta Brandano[ii] alla fine degli anni Cinquanta. Riunivo i miei concittadini galluresi per ascoltare, informare, dialogare e discutere. Durante gli incontri, come pure nel corso di conversazioni private, avvertivo in quelle persone, già da allora, l’aspirazione montante a contare di più. Nei confronti del Comune di Chiaramonti si sentivano figliastri. Con più di una ragione, devo ammettere. Quando venivano in paese, essi avevano la sensazione di essere guardati con sufficienza dai chiaramontesi di paese. Restavano pur sempre, questa la loro impressione, sos caddhurèsos, sos de Su Sàssu[iii]. In gran parte, quel loro disagio era, non soltanto comprensibile, ma pure giustificato. Ecco perché l’iniziativa di alcuni erulesi intraprendenti, volta a costituirsi in comune autonomo, ha poi trovato terreno fertile. Tant’è che l’iter, avviato alla fine degli anni Settanta, si è concluso positivamente con la conquista dell’autonomia nel 1988. Con soddisfazione di tutti. O quasi. Pur rispettoso della loro scelta, personalmente avrei preferito che sos caddhurèsos de Zaramònte fossero rimasti ancora con noi. Sento che, a seguito del loro distacco, mi manca (ci manca) qualcosa. Che va ben oltre i tremila ettari abbondanti di territorio ceduti e i 350 e passa abitanti trasferiti ai registri anagrafici erulesi. Con loro, una parte importante della mia (della nostra) cultura se n’è andata altrove. Per sempre. Auguri, cari amici di Su Sàssu. Io continuo a ricordarvi tutti con l’affetto di allora. So di essere in debito con voi per le premure, per la considerazione e l’affetto che mi avete espresso in più circostanze. Di ciò vi sono grato. Resta tuttavia il fatto che ora ci siamo persi un po’ di vista. Abbiamo possibilità d’incontro meno frequenti. Al più, in occasione di matrimoni o funerali. Me ne dolgo non poco. Mi chiedo spesso se col passaggio definitivo de sos caddhurèsos da Chiaramonti a Erula se ne sono andati per sempre pezzi significativi della mia vicenda umana, professionale e amministrativa. O se, invece, il mio rimpianto è per il tempo, definitivamente tramontato, della mia stagione primaverile. Non so darmi (non so darvi) una risposta. 3 - fine
Cfr. CARLO PATATU, Il paese che non c’è più, ed. Grafiche EsseGi srl, Perfugas 2016, pagg. 300-323.
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Ultimo aggiornamento Giovedì 02 Dicembre 2021 19:22 |