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Ancora su Mastru Matteu PDF Stampa E-mail
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Lunedì 08 Ottobre 2018 23:26

Mastru ‘e furros divenuto famoso, oltre che per la sua maestria, per un incidente curioso che gli accadde a casa nostra, una settantina di anni fa

di Carlo Patatu

Nei giorni scorsi, Nicola Brau ha ripescato dal deposito dei ricordi la figura di un muratore chiaramontese d’antan, stravagante quanto noto per la sua bravura nella costruzione dei forni domestici a legna: Mastru Matteu. E ce ne ha tratteggiato con efficacia la figura (clicca qui).

Ebbene, anche in questo caso, la mia condizione anagrafica mi consente di ampliare quei ricordi, raccontando qualcos’altro su quell’uomo che, distinguendosi dalla stragrande maggioranza dei compaesani, girava in borsalino (copricapo riservato ai ricchi notabili) preferendolo alla classica berritta e al più comune bonette[1].

Svolgeva l’attività di muratore, ma limitata a sos acconzos[2] e a s’illattonzu[3]. Che, in periodo di guerra, si praticava utilizzando come pittura la sola calce. Tant’è che lo si vedeva per la strada vestito con abiti dimessi che, di colore indefinibile, apparivano punteggiati abbondantemente da schizzi di quella calce che invece era chiamato a spennellare sui muri di casa. I maligni dicevano che quella specie di cielo stellato che parevano i suoi pantaloni, la giacchetta corta e finanche il borsalino non era frutto del caso, bensì di un suo calcolo, che mirava a farlo apparire come bravo lavoratore agli occhi della gente. Qualcuno si spinse perfino a dire che gli spruzzi della calce provocati dall’armeggiare un pennello rudimentale che sapeva molto di ramazza, se li prendeva tutti per non sporcare il pavimento sottostante. Il che, in realtà, non era vero.

Ma la sua arte edificatoria eccelleva soprattutto quando doveva costruire i forni domestici, che all’epoca funzionavano esclusivamente a legna. Mastru ‘e furros, dunque. I materiali utilizzati erano la pietra pomice e pezzi di vecchie tegole recuperate da tetti rifatti. I cari e familiari coppi con forma ricurva, localmente detti anche tegole sarde, dei quali andiamo perdendo l’uso e la memoria. Il tutto lo si legava con malta realizzata di sola terra, estratta da una cava particolare. La forma era solitamente semisferica, una specie di igloo con un orifizio quadrato per accendervi il fuoco e, quando il calore interno era ritenuto adeguato, infornarvi il pane, i dolci e gli arrosti. Non prima di averne liberato su pamentu[4] dalle brace con una paletta di ferro e averlo ripulito per bene dalla cenere con s’iscobile, una sorta di grande scopa assicurata a un manico lungo alcuni metri, su furcone. Confezionata, se possibile, con piante aromatiche.

Mastru Matteu partiva dalla costruzione di una platea circolare, attorno alla quale edificava un muretto che a mano a mano che cresceva, veniva aggettato verso l’interno e si concludeva con la chiusura della volta a cupola. Pertanto l’artigiano operava standosene in ginocchio dentro la costruzione, stante l’altezza limitata della volta. Quindi rivestiva il tutto con intonaco della stessa malta e, a lavoro finito, fuoriusciva dall’apertura che aveva provveduto a lasciare. Si stendeva prono sul piano interno e, spingendosi con le mani, metteva fuori prima i piedi e poi, piano piano, il resto del corpo. Visibilmente soddisfatto, accettava di buon grado i complimenti della padrona di casa e un buon bicchiere di vino. Oltre che il compenso pattuito.

Poco prima che finisse la guerra, e cioè nella prima metà della anni Quaranta del Novecento, mia madre si affidò a Mastru Matteu per la demolizione del vecchio forno esistente dentro casa nostra, per ricostruirlo di bel nuovo nel cortile, ma con la bocca che si affacciava in cucina. Quel brav’uomo fece le cose con la coscienza, l’impegno e la maestria di sempre; ma si sbagliò nel calcolare l’ampiezza dell’accesso. Pertanto, quando venne il momento di uscire fuori, le gambe passavano, ma il resto del corpo non ne voleva sentire.

Che fare? Non restava che mandare in malora il lavoro già ultimato e ricominciare da capo. Il che non gli tornava gradito. E quando mai poteva tornargli gradito?

Noi bambini, che avevamo assistito a tutte le fasi della costruzione, ridevamo a crepapelle nell’osservare il poveretto che si dimenava inutilmente nel tentativo di uscire da quella specie di sepolcro.

Richiamata dalle nostre risate, venne a godersi la scena una nostra vicina di casa. La quale, dopo qualche minuto, si rivolse a mia madre dicendo:

Ci’, poneli fogu como chi ch’est’intro. Has’a bidere che già l’acciappada su ‘essu de nd’essire!”[5].

Figurarsi i moccoli che quel brav’uomo mandò all’indirizzo della consigliera fraudolenta. Sentiva già odore di bruciato. E, tanto per non sapere né leggere e né scrivere, si rintanò frettolosamente nel forno e, armeggiando con furia il martello, iniziò a demolire l’opera appena conclusa. Che provvide a ricostruire l’indomani. Non prima, però di avere misurato e rimisurato più volte l’imboccatura traditrice. Attraverso la quale passò e ripassò disteso, prima di sigillare la cupola. Naturalmente mia madre gli pagò anche il lavoro svolto per la demolizione e la ricostruzione di quel forno, nonostante il muratore non ne volesse sentire di ricevere un compenso che non riteneva meritato. Aveva dignità quell’uomo.

Ma c’era un giorno, nel corso dell’anno, che vedeva Mastru Matteu in grande spolvero: il 4 Novembre, anniversario della Vittoria. All’adunata presso il Parco della Rimembranza e davanti al monumento ai Caduti per la cerimonia consueta, si presentava vestendo un abito pulito, camicia linda, cravatta, borsalino d’ordinanza e una bella serie di medaglie al valore appuntate sul petto ed esibite con visibile orgoglio. Gli ricordavano battaglie e fatti di guerra che gli piaceva raccontare a chi aveva la pazienza di ascoltarlo. Non mancando di lasciarsi vincere dalla commozione, di tanto in tanto. Ma i soliti maligni, che da queste parti non mancavano nemmeno a quel tempo, sussurravano che gran parte di quelle medaglie e dei nastrini non avevano niente a che fare coi suoi trascorsi bellici. Semplicemente ne aveva fatto incetta qua e là, appuntandoseli poi per puro godimento.

Per quel che può valere il mio pensiero, confesso di avere sempre creduto alla sua versione. D’altronde, l’uomo era buono, rispettoso, per bene. E poi la cosa non arrecava danno ad alcuno. Perché non credergli?



[1] Berritta e bonette sono due generi di copricapo. Il primo, che faceva pendant con l’antico costume, non più in uso a Chiaramonti; il secondo, dotato di visiera corta, resiste ancora fra le persone di una certa età, segnatamente fra chi pratica l’attività agro-pastorale.

[2] Piccole riparazioni.

[3] Imbiancatura di pareti domestiche e di qualche facciata.

[4] Il pavimento, e cioè il piano interno del forno.

[5] O Ciccia, accendi il fuoco finché l’uomo sta dentro. Vedrai che troverà senz’altro il modo di uscire dal forno.

 

Ultimo aggiornamento Martedì 09 Ottobre 2018 00:01
 
Commenti (1)
Mastru Matteu, curioso, rinfresco della memoria
1 Martedì 09 Ottobre 2018 21:31
Salvatore Cossu

Lo ricordo vagamente, personaggio anche a me noto per la sua maestria. La domanda é pero, poiché mi é sfuggito oppure non la ho mai saputo ; quale era il su cognome, chi sono o chi erano i suoi discendenti?


Grazie. Un caro saluto


---


Il problema del cognome me lo sono posto anch'io e l'ho risolto soltanto oggi. Il suo cognome era Sechi ed era originario di Sennori. Abitava in un locale attiguo alla casa ex Madau, dov'è morto. Riposa nel nostro cimitero.


Ricambio saluti cari. (c.p.)

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