Home » Limba Sarda » Varie » La sardità isola, la sarditudine non isola…

Immagini del paese

Castello 24.JPG

Statistiche

Tot. visite contenuti : 11349811

Notizie del giorno

 
La sardità isola, la sarditudine non isola… PDF Stampa E-mail
Valutazione attuale: / 2
ScarsoOttimo 
Mercoledì 16 Novembre 2016 10:01

Relazione scritta e sintesi dell’intervento di Paolo Pulina, membro del comitato esecutivo, al VI congresso Fasi

di Paolo Pulina

Mi è già capitato di citare, relativamente alla nostra condizione di emigrati – quindi di persone trasferitesi in un ambiente diverso da quello natìo – questa frase di Antonio Marazzi, curatore del volume “L’Europa delle culture”: «Bisogna apprezzare e valorizzare le diversità culturali: far parte di due o più culture significa avere il meglio di esse».

Credo che non sia superfluo aggiungere che, per avere «il meglio di queste due culture», bisogna però non prescindere dallo studio, cioè da un impegno rispetto al quale il sardo Antonio Gramsci – emigrato sardo anche lui! – ha usato termini categorici: «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con uno speciale tirocinio oltre che mentale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza».

Faccio una personale esemplificazione pratica del concetto.

Sono nato a Ploaghe (Piaghe, in sardo logudorese) in una famiglia di pastori. Al di là dei libri di lettura e dei sussidiari, il primo grande Dizionario, il mitico “Zingarelli”, è entrato in casa, agli inizi degli anni Sessanta, in cambio di forme di formaggio, da una famiglia che se ne doveva disfare perché aveva deciso di emigrare in Francia.

I libri scolastici sui quali ho studiato alle elementari e alle medie non trattavano certo né della storia né della cultura della Sardegna. Per fortuna, grazie agli ottimi voti nell’esame di terza media, come studente meritevole dunque, ricevetti un giorno, con emozione, un dono librario dalla Regione Autonoma della Sardegna. Lo conservo ancora oggi gelosamente: si tratta di “Lo Statuto sardo”, con scritti di Efisio Corrias, Paolo Dettori, Edoardo Vitta, Michelangelo Pira, Lorenzo del Piano, Alberto Boscolo (Cagliari, Editrice Sarda fratelli Fossataro, settembre 1960).

A queste personalità, purtroppo tutte scomparse, rivolgo qui un ricordo riconoscente.

Trasferitomi a Milano nel 1967 per l’Università e dal 1974 in provincia di Pavia, a furia di studiare, secondo la raccomandazione di Gramsci, posso dire di condividere appieno «il meglio delle due culture»: quella sarda e quella pavese.

Oggi i libri hanno invaso la mia casa, moltissimi sono in sardo e di argomento sardo, ma diversi, in italiano, ne ho scritto anche io. Dico solo i titoli degli ultimi tre: “Memorie su Ploaghe e Logudoro” (presentazione di Salvatore Tola e di Salvatore Patatu); “Nicola Congiato (1816-1897), missionario gesuita ploaghese, poco noto in Sardegna, famoso negli USA: materiali per una bio-bibliografia (prefazione di Raimondo Turtas; presentazione di Serafina Mascia; con due lettere di Gerald McKevitt”); “Per una guida letteraria della provincia di Pavia” (2 volumi per un totale di 600 pagine). Ho dato un esempio concreto di due culture che convivono: Ploaghe, il paese natale, sineddoche, parte per il tutto – la Sardegna – e la provincia di Pavia.

Mi è capitato, nel mio intervento al quinto Congresso della Fasi ad Abano Terme (è pubblicato negli Atti), di approfondire questo concetto, strettamente legato – come si intuisce – al discorso sulle “due culture”: «I Circoli degli emigrati hanno aiutato molti sardi non residenti a scoprire o a riscoprire le proprie “radici” e hanno avuto in premio la fidelizzazione attraverso la tessera annuale. Ma, se uno di noi vuole che le radici fruttifichino, bisogna che si impegni a coltivarle in prima persona; una volta che ci è ritrovati o scoperti “dentro” una tradizione e una identità storico-culturale, bisogna operare una scelta; occorre fare uno sforzo».

Ecco noi, qui delegati per un Congresso nazionale ma soprattutto delegati a rappresentare le migliaia di corregionali che sono iscritti ai circoli della Fasi, questa scelta l’abbiamo operata; questo sforzo l’abbiamo fatto. A Pavia, a Bareggio-Cornaredo, a Fiorano Modenese, a Magenta, a Milano, a Padova, a Rivoli (solo per fare alcuni dei 70 nomi di città sede di un circolo Fasi) la scelta e lo sforzo sono stati quelli di condividere attivamente e non solo simbolicamente due culture.

Sulla base di questa esperienza che accomuna noi tutti delegati qui presenti – cioè quella di aver mantenuto non un legame esclusivamente nostalgico, ma un collegamento concretamente operativo con l’isola natia – mi permetto di ragionare su questo asse logico-argomentativo, che gioca anche sulle parole, ma che è facile da intuire: la sardità isola, la sarditudine non isola…

Sostiene Gavino (nome fittizio di persona nata in Sardegna da genitori entrambi sardi), a proposito del principio della “sardità”:

«Venire al mondo in un’isola ti dà un’identità specifica, non confondibile con nessun’altra. Se poi nasci in un’isola che è quasi un continente (secondo la famosa definizione dello scrittore Marcello Serra), rivendicare questo speciale marchio identitario ti dà la soddisfazione di sentirti erede di una gloriosa tradizione (i nuraghi, i Giganti di Monti Prama – seguo la dicitura del Comune di Cabras – gli Shardana, Amsicora, i Giudicati, Eleonora d’Arborea, e via di seguito). Il ricordo delle imprese de sos mannos (gli antenati) fa diventare automaticamente mannu (grande) qualsiasi nativo che abbia in comune con loro il luogo isolano, isolato, di nascita».

Dall’altra parte, sostiene Anna (nome fittizio di persona nata fuori della Sardegna da un genitore sardo), a proposito del principio della “sarditudine”:

«Va bene, sardo è chi nasce in Sardegna e magari parla una delle varianti della lingua sarda. Ma già la Legge regionale 7/1991 della Regione Sardegna, all’art. 2, considera come destinatari degli interventi “a) coloro che siano nati in Sardegna, che abbiano stabile dimora fuori del territorio regionale e che conservino la nazionalità italiana, nonché i coniugi ed i discendenti, anche se non nati in Sardegna, purché abbiano almeno un genitore sardo; b) i figli di cittadini di origine sarda che conservino la nazionalità italiana; c) le aggregazioni di sardi costituiti in circoli in Italia o all’estero, secondo le leggi dello Stato ospitante e i principi della Costituzione italiana e dello Statuto sardo, le federazioni dei circoli degli emigrati sardi e le associazioni di tutela degli emigrati”.

E poi, se non siamo sordi al richiamo della realtà, oltre i sardi di seconda e terza generazione, non possiamo e non dobbiamo sottovalutare il fatto che, in gran numero (non dico tutti!), i sardi di nascita, quando vivono fuori della Sardegna, sono portati ad unirsi e sono capaci, con il loro spirito affettivo-“imprenditoriale” applicato alla fidelizzazione degli amici dei sardi, di creare attorno alla Sardegna vigorose correnti di simpatia».

Risultato: sardi si nasce ma sardi (senza virgolette) vengono considerati, ai sensi di legge, anche se non nati in Sardegna, i coniugi e i discendenti di emigrati sardi; ma “sardi” (questa volta con le virgolette) possono essere definiti coloro che, senza nessun legame di sangue o di parentela con i sardi, collaborano attivamente e continuativamente con i Circoli che radunano i sardi “nativi” fuori di Sardegna, i loro coniugi, i loro discendenti.

La mia relazione al congresso Fasi di Abano Terme aveva per titolo “L’organizzazione Fasi ti può aiutare a (ri)scoprire le radici ma poi devi essere tu a coltivarle”. Si capisce che la mia posizione è orientata a privilegiare l’orizzonte della “sarditudine”, nell’intento di vedere salvaguardati i diritti morali e culturali dei figli dei sardi/e emigrati (seconda e terza generazione) e nella direzione di dare una gratificazione non esclusivamente materiale alle tante persone che collaborano con i Circoli Fasi perché “innamorate” di una persona sarda o perché innamorate, tout court, della Sardegna.

Ora, il concetto di “sarditudine” (ma anche di “sicilitudine”: si vedano a questo proposito gli scritti di Leonardo Sciascia e di Gesualdo Bufalino) è esemplato su quello di “negritudine”. Dice giustamente il vocabolario Treccani: «negritùdine s.f. [adattam. del fr. négritude (der. di nègre “negro”), termine coniato, o per lo meno diffuso, dallo scrittore e presidente del Senegal L.-S. Senghor (1906-2001)]».

Lo stesso dizionario, dopo aver definito correttamente la negritudine come «coscienza e rivendicazione della tradizione culturale negra come patrimonio culturale autonomo da difendere e preservare contro ogni tentativo di assimilazione da parte della cultura europea», scrive che «il termine ha come sinonimo negrità».

A me sembra invece che una differenza ci sia: “negrità” e “sardità” rinviano a dati biologici-geografici-anagrafici esteriori (in linguistica “denotativi”) mentre “negritudine” e “sarditudine” rimandano a un complesso di elementi soprattutto interiori (in linguistica “connotativi”), a quella che il sardo Antonio Gramsci chiamava Weltanschauung, cioè in tedesco “visione-concezione del mondo”.

Leggiamo questa riflessione di Giuseppe Dessì, pubblicata nella raccolta di suoi scritti saggistici Un pezzo di luna: note, memoria e immagini della Sardegna mirabilmente curata da Anna Dolfi per le Edizioni Della Torre.

Del grande scrittore sardo – tanto per rimanere al nostro tema: era nato a Cagliari per l’anagrafe ma affermava di sentirsi villacidrese di cuore, di sentimenti, di memorie – molti corregionali magari non hanno letto neanche un’opera (e invece farebbero bene a farlo), ma conoscono almeno questa affermazione:

«Non so più nemmeno se il mio sia amore oppure fastidio, rabbia di essere nato là, di essere legato, di rimanere legato per tutta la vita a una terra tanto vecchia e tanto lontana dal mondo nel quale vivo. Eppure quella è la mia piccola patria. Là sono diventato uomo, là è la mia gente, dove io ho vissuto bambino, la casa di mio padre, case e tombe. Ma ciò che conta di più è che io, anche ora, se vado là, mi sento più forte e intelligente, anzi onnisciente. Se immergo la mano nell’ acqua della Spendula, o del Rio Manno, so di che cosa è fatta quell’acqua. Se raccolgo un sasso di Giarrana, ho di quel sasso una conoscenza che arriva fino alle molecole, fino all’atomo. Là mi sono sentito al centro dell’universo come un astronauta. È per questo che sono geloso della mia terra, della mia Isola, e odio tutto ciò che può renderla volgare».

Lo scrittore è stato emigrato come noi – si può dire – per tutta la vita in diverse città dell’Italia continentale (Pisa, Ferrara, Ravenna, Teramo, Grosseto, Roma) interessandosi naturalmente alla storia e accostandosi alla cultura di ciascuna di esse (e sarebbe il caso che qualche Circolo Fasi di queste città o vicino a queste città lo ricordasse in maniera adeguata…) ma per tutta la vita, da lontano, ha continuato a pensare alla “sua” Sardegna e si è adoperato con gli scritti e con le immagini (fotografiche e cinematografiche) per farne conoscere la storia, la civiltà, animato da quello “Insel–Spleen” (sentimento dell’Isola) che noi sardi di fuori ci portiamo dentro, come lui, come una magnifica ossessione, quella della “sarditudine”. E dato che abbiamo deciso, scegliendo con cognizione di causa, di essere attivi nel circuito organizzativo delle associazioni degli emigrati sardi, nei Circoli interclassisti e intergenerazionali (e non nelle certamente più tranquille - e più gratificanti dal punto di vista dell’incremento delle relazioni con le persone “che contano” - associazioni di distinzione sociale dove la vita associativa è una serie di pranzi/cene di gala), abbiamo addirittura la certezza che le iniziative che ci detta la nostra “sarditudine” siano più incisive di quelle del grande scrittore, che purtroppo – a dispetto della sua disponibilità verso tutti i sardi – è riuscito a far arrivare la propria voce solo ad una minoranza culturalmente motivata.

Non possiamo non dirci dessiani, dunque!

Consapevoli che questo punto di vista concretamente significa dare una legittimazione almeno “filosofica” alla prospettiva che l’avvenire dei Circoli sardi nella penisola, in Europa e nel mondo può ricevere un aiuto propulsivo da coloro che, pur non essendo nati in Sardegna, hanno vincoli affettivi con i genitori o i nonni sardi autoctoni (e questo già lo riconosce la Legge regionale 7/1991) e da coloro che, anche se non hanno affinità di sangue o di parentela con i sardi autenticamente doc, hanno con essi un alto tasso di affinità elettiva, una consonanza di sentimenti e di affetto che confina con l’amore. Traiamone le conseguenze, perché sappiamo anche noi sardi della verità che ci ha insegnato padre Dante Alighieri: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona». («L’amore, che non permette a colui che è amato di non riamare a sua volta»).

«Amor ch’ogni amad’a a amar’ isprona’» (traduz. in logudorese di don Pietro Casu).

«Amor, c’amada - mai non lassat lena» (traduzione in nuorese di don Paolo Monni).

«Amori, ki’ a nemus-u pèrdonat, sendessiri amau, de dep’ amai» (traduzione in campidanese di Salvatore Vargiu).

Sintesi dell’intervento nel dibattito congressuale.

Dopo aver argomentato brevemente le differenze fra “sardità” e “sarditudine”, illustrate più diffusamente nella relazione scritta, qui sopra riprodotta, ho accennato “a braccio” ai seguenti punti.

1) La ricchezza culturale e spirituale che deriva dalla condivisione di più lingue, di più culture, è stata evocata dall’arcivescovo di Cagliari, mons. Arrigo Miglio, nell’omelia della messa celebrata nella sede del Congresso la mattina di domenica 30 ottobre. Anche Carmelo Spiga, delegato del Circolo di Udine, ha fatto un cenno alla felicità che gli procura la possibilità di esprimersi in sardo e in friulano e all’orgoglio del suo Circolo per aver favorito la traduzione della Bibbia in sardo, curata da Salvatore Ruju. (A questo proposito mi preme ricordare che Francesco – “Cicciu” – Scanu Uleri, nato a Ploaghe nel 1926 e stabilitosi dal 1961 a Barcellona, negli ultimi cinque anni del Novecento ha realizzato la traduzione in lingua sarda del Messale Romano e delle Sacre Scritture – Antico e Nuovo Testamento – offrendo poi il suo lavoro, contenuto in 8 volumi e in un CD-ROM, all’Archivio della Parrocchia di S. Pietro Apostolo di Ploaghe: il nipote Adrià Mainar Scanu è impegnato a far conoscere questa importante opera di valorizzazione del sardo, di cui peraltro anche lui è appassionato cultore, insieme ovviamente al catalano).

2) La meritoria mostra-mercato libraria organizzata dall’editore Carlo Delfino per conto dell’Associazione Editori Sardi (AES) mi ha consentito di acquistare l’importante volume di Bachisio Bandinu “Noi non sapevamo”, il cui motivo conduttore è questa riflessione critica:

«Il ritardo è il carattere distintivo della storia sarda, per limitarci soltanto agli ultimi sessant’anni. Sempre in ritardo rispetto alle urgenze del tempo e alle nostre necessità […] Pesa una dolorosa constatazione, noi sardi non sapevamo ». Temi focalizzati sono la lingua, il turismo, l’industria, le basi militari, l’ambiente. Sarebbe bello se Bandinu, che è esperto della materia, anche per essere stato presidente del circolo sardo di Varese, in una nuova edizione del libro, o in un saggio a parte, ragionasse sulla preoccupazione della FASI: cioè, che i sardi residenti, in anni futuri, si accorgano («noi non sapevamo») dell’utilità dei servizi volontariamente realizzati da migliaia di emigrati sardi … quando ormai sarà troppo tardi perché nel frattempo i Circoli saranno stati costretti a chiudere per mancanza del sostegno dei fondi regionali. L’estinguersi dei “padri fondatori” non favorirà certo un automatico rinnovamento dei quadri dirigenziali! Anzi!

In questo senso ci rivolgiamo anche agli altri intellettuali sardi che sono stati sempre vicini alle istanze dei Circoli degli emigrati e di cui sono stati festeggiati ospiti: Manlio Brigaglia, Aldo Accardo, Paolo Pillonca, Bruno Rombi, Salvatore Tola, Giacomo Mameli, Tore Patatu. Un pensiero non possiamo non rivolgerlo, in questa occasione, ai compianti Tito Orrù e Nicola Tanda, che hanno sempre risposto con entusiasmo alle richieste di tenere relazioni nei Circoli.

3) Ovviamente nessuno mette in discussione il valore di “testimonials” della civiltà sarda che assumono i Giganti di Monti Prama ma a me sembrerebbe anche giusto che i sardi fossero riconoscenti e però anche lettori e conoscitori delle opere di un piccolo ma gigantesco uomo quale è stato il Sardus Pater Giovanni Lilliu.

4) Sulla necessità di tener conto degli apporti sempre quantitativamente e qualitativamente importanti per il futuro dei Circoli degli emigrati sardi che possono essere dati dagli amici dei sardi, sono contento che vi si siano soffermati il giovane Giuseppe Orrù (di Gattinara), Giampaolo Barbarossa (di Novara) e Valter Argiolas (presidente del Circolo di Magenta).

5) Sono lieto che i delegati abbiano potuto conoscere di persona l’onorevole Elena Centemero che da anni si batte perché nella scuola italiana non venga messa in ombra l’opera del premio Nobel Grazia Deledda, sulla quale giornalistucoli italioti (per usare un aggettivo molto caro a Francesco/Cicittu Masala) si accaniscono senza provare vergogna (ultimo Alessandro Gilioli de “l’Espresso”).

Sappiamo che anche un Premio Nobel per la letteratura, Gabriel García Márquez, è stato sprezzante nei confronti della sua collega sarda. (Dopo il congresso FASI, contro i detrattori della Deledda ho scritto un articolo, reperibile al link http://tottusinpari.blog.tiscali.it/2016/11/04/onore-a-elena-centemero-per-la-sua-mozione-a-favore-della-valorizzazione-di-grazia-deledda-i-circoli-sardi-sono-al-suo-fianco-nel-contrastare-i-detrattori-dell%E2%80%99opera-della-grande-scrittrice/#more-47480 ).

6) I veri vessilliferi dell’identità sarda nell’Italia continentale, in Europa e nel mondo per me sono i dirigenti dei Circoli, che dedicano quotidianamente e volontariamente il loro tempo in attività promozionali che tengono alta la bandiera della Sardegna. I Comuni di origine dovrebbero dar loro almeno il riconoscimento morale di istituire un Albo d’oro degli emigrati che fanno onore al loro paese, alla loro città e all’intera Sardegna. Sono loro che – a partire dal Primo Congresso Regionale Sardo tenuto in Roma in Castel S. Angelo dal 10 al 15 maggio 1914, promosso e organizzato dall’Associazione dei sardi a Roma, progenitrice dell’attuale “Gremio dei Sardi” di Roma, «per esaminare e discutere obbiettivamente i principali fra i problemi che interessavano la Sardegna» – hanno donato alla nostra Isola “Cent’anni di sarditudine”, durante i quali migliaia e migliaia di emigrati sardi, coscienti della loro autonomia culturale, hanno “contagiato” della stessa passione i loro corregionali meno attivi e i non sardi desiderosi di scoprire una terra “diversa”, un’isola “vera”, una civiltà “arcaica”, con i suoi misteriosi nuraghi, con una lingua che affascina per il suo substrato latino sul quale si sono innestati gli apporti del catalano, del castigliano, dell’italiano.

Pur ammirando il coraggio di chi propone i piatti della tradizione sarda in paesi lontani (da Tokyo a Buenos Aires), il futuro della “sarditudine” è affidato al lavoro volontario, diuturno (cioè che dura a lungo, che non si esaurisce in un impegno episodico) delle migliaia di emigrati sardi, dei loro figli, dei loro discendenti, dei loro amici conquistati sul campo. Tutti uniti dalla volontà di fare (e, sottolineo ancora una volta, dalla volontarietà nel fare) il bene della Sardegna, l’isola madre che, proprio perché ne sono lontani, sentono più vicina rispetto a coloro che la abitano e la vivono tutti i giorni.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 16 Novembre 2016 10:07
 

Aggiungi un commento

Il tuo nome:
Indirizzo email:
Titolo:
Commento (è consentito l'uso di codice HTML):