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Dài Sandro! |
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Mercoledì 20 Maggio 2015 21:47 |
Il ricordo di un bravo calciatore, Sandro Congiatu, e del calcio chiaramontese del tempo che fu di Carlo Patatu Scorrendo la “Nuova Sardegna”, stamani ho appreso della scomparsa di Sandro Congiatu. Aveva 86 anni. Chi ha la mia età sa di chi parlo. Ho fatto subito un salto a ritroso di quasi settant’anni! Quando, nell’immediato dopoguerra, anche i chiaramontesi misero in piedi una squadra di calcio. Che, con fortuna alterna, si cimentò con quelle dei centri viciniori.
Fra i giocatori, eccelleva Sandro Congiatu, figlio diciottenne dell’impresario Pietrino Congiatu che, nella seconda metà degli anni Quaranta, edificò i locali del futuro cinema “Fontana” (oggi discoteca Marrone) per conto del commerciante Faricu (Salvatore) Lezzeri. Ebbene, siccome la viabilità e i mezzi di comunicazione non consentivano ancora la pratica del pendolarismo, il signor Congiatu, originario di Porto Torres ma domiciliato a Sassari, si stabilì in paese. La famiglia, invece, continuò a vivere in città. Anche perché i figli erano studenti.
Dài, Sandro! Questo il ritornello che accompagnava le sue incursioni frequenti in area avversaria. I tifosi lo adoravano, le ragazze se lo divoravano con gli occhi. Era pure un bel giovane. Si giocava allora al campo di Codinarasa, l’altopiano che sovrasta il paese a Sud-Est. Quello spazio, disseminato di pietre minute ed esposto ai quattro venti, era pressoché impraticabile. Ma la caparbietà dei giovani, che si adoperarono per bonificarlo in maniera soddisfacente, anche se mai definitiva, fece premio sulle previsioni fosche delle cassandre di turno.
L’andamento lungo l’asse Est-Ovest e le sferzate impietose del Maestrale favorivano la squadra che difendeva la porta a occidente, collocata dalla parte di Osilo. Giocatori e pallone, oltre ad avere il vento in poppa, potevano giovarsi di una certa pendenza del campo verso oriente, in direzione del monte Limbara. Leggera ma impegnativa, quella pendenza richiedeva un plus d’energia da parte di chi, costretto a risalirla per espugnare la porta avversaria, doveva mettere in conto il vento contrario e il sole in faccia. Oltre alla barriera dei difensori che ne presidiavano l’area con determinazione e qualche... pugno. Senza fare sconti.
Su quel campo, segnato all’ingrosso da linee improbabili di calce bianca, i ragazzi di Chiaramonti presero confidenza col pallone. Lì si formarono i primi giocatori, che poi diedero vita a un embrione di squadra. Niente magliette, né pantaloncini personalizzati; ma nemmeno scarpe coi tacchetti di cuoio. Ciascuno indossava quello che aveva, sforzandosi di tenere a mente i volti dei propri compagni di squadra, per distinguerli dagli avversari durante le partite.
Di volta in volta, le porte erano allestite e poi smontate utilizzando longheroni di legno che, presi in prestito da qualche muratore, s’infilavano in buche scavate a distanza regolare l’una dall’altra. A fungere da traversa, era sufficiente una fune da contadino legata ai due pali. Che superavano di qualche metro l’altezza prevista e delimitata dalla corda. Un po’ come nei campi di rugby.
Non li si poteva segare a misura, una volta per tutte, proprio perché, essendo presi in prestito, quei longheroni li si doveva restituire a fine partita. Niente reti, né spogliatoi. Di recinzione per il pubblico non se ne parlava proprio. Il pallone, se calciato malamente o sospinto dal vento impetuoso, invece che in direzione delle porte, finiva più spesso nel vigneto sottostante di tiu Caralu. I raccattapalle che andavano giù a ricuperarlo dovevano fare i conti con quel vecchio brontolone e per
Per tanti anni, le seccature più sgradevoli i calciatori e i dirigenti le ebbero da quell’uomo. Col tempo, il problema si risolse da solo, quando tiu Caralu depose le armi perché sconfitto dalla vecchiaia e smise di frequentare il suo vigneto. Che poi passò in mano a persone più tolleranti e comprensive.
In occasione degli incontri più importanti, e cioè quando gli avversari erano gli odiati ozieresi o i ploaghesi, anche noi bambini davamo un contributo valido per volgere il risultato a nostro favore. Ci appoggiavamo ai pali traballanti della porta casalinga e, spingendoli verso l’interno senza che l’arbitro se ne accorgesse, provocavamo un leggero inarcamento della corda verso il basso. Un modo ingenuo e talvolta efficace per ridurne lo specchio, imbrogliando le carte a nostro favore. Il sorriso riconoscente del portiere Rino Moretti era molto più che un grazie.
Confesso di non avere avuto una grande passione per il calcio. Lo praticai soltanto da bambino, calciando una palla di pezza e tentando invano d’infilarla nella porta avversaria. Senza comprendere un accidenti delle regole di quel gioco. Ero quello che si dice un brocco.
Ciò, naturalmente, non m’impediva di tifare per i calciatori della squadra locale. Che all’epoca (mi riferisco alla fine degli anni Quaranta) si fregiava dei nomi di Rino Moretti, Michelangelo Lezzeri, Lucio Cossu, Peppino Bajardo, Giacomino Coda, Nino Maccioco, Mario e Vincenzo Budroni, Giulio Schintu, Nicola Brau, Tonino Ruiu (Sedinesu), Francesco Tedde (Cischeddu Franziscu), Andrea Solinas (Meazza), Flavio Schintu, Celestino e Giovannino Malta, Luigi Fogu (Fogheddu) e, appunto, Sandro Congiatu, insieme ad altri di cui non ho memoria.
Il pubblico dei tifosi, fazioso, urlante e incontenibile anche allora, si scatenava e premeva fisicamente sui giocatori e sull’arbitro, avendo la possibilità di superare facilmente le linee di demarcazione e d’invadere il campo senza recinzione, durante lo svolgimento del gioco. Per vedere meglio, si diceva. Avevano voglia, i dirigenti, di trattenere quella massa di scalmanati, urlandogli in viso di starsene buoni e sospingendoli con forza dietro il tracciato. Niente da fare. Quelli ricominciavano da capo, sebbene avessero promesso, appena un minuto prima, di starsene tranquilli e al proprio posto.
Ad aggravare la situazione, taluni furbastri lanciavano sassi (ce n’erano tanti a portata di mano) contro i giocatori avversari e l’arbitro. Sui quali, in qualche occasione, si scaricarono gragnole di pugni soltanto perché le cose si erano messe male per la nostra squadra. Insomma, ci eravamo fatti una brutta fama nel circondario. Ospitali, certo; ma solo se la vittoria stava da questa parte.
Eppure, nonostante i non pochi limiti e la posizione decisamente infelice, il campo scalcinato di Codinarasa riuscì a lungo, nel bene e nel male, a soddisfare gli appassionati del calcio. Giocatori e no. Fino ai primi anni Settanta del Novecento, quando fu reso agibile l’impianto di Cunventu, la cui realizzazione era stata avviata fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a seguito della demolizione improvvida del convento secentesco dei carmelitani.
Furono tante le partite mitiche disputate a Codinarasa, su un terreno sconnesso, fuori livello, disagevole e costantemente presidiato dal Maestrale. Alcune di esse ebbero come protagonista Sandro Congiatu, che poi si dedicò all’insegnamento di disegno e storia dell’arte alla scuola media, mettendo su famiglia a Porto Torres.
Mi piace ricordarlo perché quel “ragazzo” ci regalò momenti di entusiasmo incontenibile e contribuì ad accrescere il prestigio della nostra squadra. Dài, Sandro! E grazie. |
Ultimo aggiornamento Mercoledì 07 Aprile 2021 16:44 |
Gentile dottor Patatu,
grazie di cuore per questo splendido affresco di quegli anni.
Mio padre amava l'arte e quindi la bellezza. "La bellezza salverà il mondo" aveva scritto Dostojevskij. Non so se la bellezza salverà il mondo; di sicuro saranno le persone belle, a salvare il mondo. E ce ne sono tante. Mio padre era una di queste.
Con tutto il cuore, grazie.
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Grazie a lei per le cose che scrive. Saluti cordiali. (c.p.)
Io sono il figlio di Sandro Congiatu.
Oggi ho visto per caso questo racconto e sono rimasto affascinato dalla storia e da come viene raccontata, trasportando nel tempo emozioni vivissime. Ho sentito tante volte mio padre parlare con entusiasmo del suo periodo di "Ciaramonti" e ora capisco il perchè. Per questo ringrazio di cuore la famiglia Patatu e Chiaramonti.
Dài Sandro! E grazie.
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Grazie a lei, Pierpaolo. Grazie per avermi confermato quel che da sempre penso. E cioè che anche Sandro avesse conservato un bel ricordo del pur breve periodo trascorso con noi, in questo piccolo, povero paese di collina. Durante il quale ha avuto modo di regalarci emozioni e suggestioni che, come vede, resistono al tempo.
Un saluto cordiale. (c.p.)