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Un francobollo valeva un drink |
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Mercoledì 23 Gennaio 2013 21:53 |
Ancora un aneddoto sulla vecchia Casa comunale e su taluni personaggi che ci hanno operato di Carlo Patatu
La proposta di lavoro me la fece il sindaco Armando Fumera. Per un mesetto, mi disse, in attesa che tiu Giommaria Iscanu, titolare dell’ufficio abigeato, si rimettesse in salute. Il che non avvenne, perché ai primi di Settembre passò a miglior vita.
La reggenza dell’ufficio fu affidata provvisoriamente ad Antonio Caccioni, che già era addetto a bilancio, contabilità, deliberazioni, imposte e tasse. Ma Antonio in Comune era una sorta di jolly: sapeva fare tutto; e lo faceva bene. Fu lui il mio tutor. Di volta in volta mi assegnava le cose da fare.
Nelle elezioni del 1952 aveva conquistato la maggioranza una lista civica (Sardegna e due spighe) capeggiata dal commerciante Armando Fumera e composta da Domenico Accorrà (1905), Bainzeddu Denanni, Toeddu Villa, Tomasinu Brunu, Nigola Satta, Martino Brundu, Gigi Fois, Pedru Soddu, Eugenio Brunu (1911), Domenico Sale e Pietrino Montesu. I democristiani Pasquale Brau, Giulio Falchi e Carletto Maccioco furono relegati all’opposizione. Una terza lista di ex combattenti e reduci di guerra restò invece a bocca asciutta.
L’organico comunale era composto dal segretario Tottuccio Galleu, dagli impiegati Giommaria Scanu, Antonio Caccioni e Antonio Villa; dalla guardia municipale Giovanni Casula, dal becchino (allora si chiamava così) Pedrantoni Satta, dal procaccia rurale Bainzu Perinu e dalla bidella tìa Ciana Gallu. Che, col supporto temporaneo di qualche avventizia, puliva i locali del municipio, dell’ambulatorio e della scuola elementare, le cui aule erano disseminate qua e là per il paese. Il caseggiato scolastico non c’era ancora. La scuola media neppure. L’esazione delle II.CC. (imposte di consumo, o dazio se più vi piace) era affidata a un invalido di guerra simpatico e stravagante, tìu Antoni Piras.
La guardia municipale non aveva da fare un gran che, stante il
Altra sua incombenza quotidiana era di salire la scala elicoidale del campanile per dar la carica all’orologio pubblico. Solitamente a mezzogiorno, domeniche comprese. Giunto alla cella campanaria, si arrampicava sulla scaletta di legno che conduceva alla cupola, dentro la quale stavano i macchinari. Girando una manovella faceva risalire i tre contrappesi di pietra, assicurati ad altrettante corde e sospesi all’interno di una sorta di pozzo. Scaricandosi, fornivano l’energia necessaria a tenere in moto l’orologio, a battere ore e quarti.
Su rellozu ‘e campanile era un riferimento importante per la comunità: annunciava la scansione delle attività quotidiane. Lavorative, scolastiche e domestiche. Era dunque tiu Giuanne Cadduresu ad assicurare lo scorrere normale del nostro tempo. Se si fermava lui, il campanile smetteva di battere le ore. Un bel guaio per il paese. La guardia, consapevole di tanta responsabilità, ne menava vanto.
Seduto al mio tavolo di lavoro, avevo modo di percepire le “ordinazioni”, fatte con tono di voce sempre discreto: “Per me uno da 10 lire... a me due da 15... e invece a me uno da 20...”. E così via. Io ero l’unico che non ordinava alcunché. D'altronde non avevo lettere o cartoline da spedire.
Poiché la cosa si ripeteva ogni giorno, mi chiedevo perché mai quei signori non facessero la provvista dei bolli postali, invece di centellinarne l’acquisto di volta in volta.
La ragione non tardai a scoprirla; ma solo dopo avere assistito per caso al rientro della guardia municipale con le compere fatte. Chiuse accuratamente nella borsa di cuoio per sottrarle a sguardi indiscreti. Il “francobollo” da 10 altro non era se non una gassosa; quello da 15 una birra; il 20 stava per un Campari e il 50 per un quartino di marsala o altro. Gli interessati trangugiavano i “francobolli” in men che non si dicesse.
Un brindisi collettivo e quotidiano, dunque. Una consuetudine protrattasi finché tiu Giuanne non è andato in pensione. Una pausa caffè, si direbbe oggi. Ma fruita con un minimo di discrezione e, se mi è permesso dire, persino con un tocco di eleganza. La gente sapeva, il sindaco pure. Ma l’uso della metafora attenuava, se proprio non cancellava del tutto, ogni possibile ricorso a interventi censori o di biasimo.
In fin dei conti, la guardia non sprecava tempo supplementare nel disbrigo di quell’incombenza durante l’orario di servizio. Passando in Carrela ‘e cheja, non rinunciava mai a farsi un bicchiere da tìu Boceo. Tabacchino e bettola, gestiti dal medesimo proprietario, erano intercomunicanti.
Da-e intro inintro. |
Ultimo aggiornamento Giovedì 24 Gennaio 2013 16:58 |