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Il cavallo voglioso e il pretino imbranato |
Lunedì 29 Gennaio 2024 14:09 |
di Carlo Patatu
In altre occasioni, anche di recente, ho parlato del mio padrino di cresima, un giovane sacerdote di Ploaghe, assegnato a Chiaramonti come viceparroco verso la fine degli anni Trenta. Mi piace riprendere l’argomento e raccontare un episodio molto singolare che lo vide protagonista. Qui da noi si trattenne alcuni anni; poi si trasferì a Roma, dove studiò ancora e fece carriera nel Santo Uffizio. Correvano i tempi del potentissimo cardinale Alfredo Ottaviani, considerato una specie di vice Papa. Quindi divenne un monsignore importante che aveva accesso ai piani alti dei Palazzi Vaticani. Insignito del grado di Cavaliere del Sovrano Militare Ordine di Malta, fu amico personale e confidente di Paolo VI. Tuttavia nello spirito e nella semplicità dei modi era rimasto quel giovane prete approdato a Chiaramonti subito dopo la conclusione degli studi al seminario regionale di Cuglieri. Sempre allegro e ottimista, don Bucianeddu in paese riuscì presto a coagulare attorno a sé l’interesse e la partecipazione dei giovani. Disponibile e disinibito, nelle discussioni non si sottraeva mai al confronto, né ad alcun argomento. Aveva le sue debolezze (tante), che manifestava apertamente e senza disagio. Per queste invitava i fedeli a non scandalizzarsi troppo. I preti, amava ripetere, sono uomini come gli altri. Un giorno gli si presentò in casa un giovane. Trafelato, il ragazzo gli comunicò che il nonno era sul punto di andarsene all’altro mondo; ma non voleva andarci prima di avere ricevuto l’assoluzione dai peccati e la santa comunione. Quindi non c’era tempo da perdere. Anche perché quel vecchio abitava nella frazione Oluitti, distante oltre dieci chilometri dal centro abitato. Per fare presto, ma anche per attenuare la sfacchinata di quella trasferta impegnativa, chiese in prestito il cavallo a un barrocciaio, che già altre volte lo aveva disimpegnato in simili frangenti. Fece sellare la cavalcatura, montò in arcioni e, afferrate le briglie, partì di gran fretta. Il cavallo (un baio) era robusto e poco incline al galoppo; ma resistente. Insomma, un fondista. Il proprietario lo attaccava usualmente alle stanghe del proprio barroccio e gli faceva percorrere quotidianamente decine di chilometri; viaggiando fino a Sassari e oltre, trasportava carichi considerevoli di mercanzie. Ma a don Masala quel cavallo andava particolarmente a genio perché aveva una dote rara: poteva montargli in sella chiunque. Era proprio mansueto. Come l’ombra, diceva il proprietario. La giornata primaverile era illuminata da un sole più che tiepido. La cavalcata, pertanto, si annunciava piacevole. Prima di montare in sella il prete aveva indossato cotta e stola, come di prammatica. Dentro una custodia, rivestita di seta giallina finemente ricamata, aveva inserito la preziosa teca d’argento con l’ostia consacrata. Il tutto con movimenti che, seppure rapidi, lasciavano trasparire grande rispetto e devozione. La custodia, assicurata intorno al collo da un nastro robusto di seta di colore rosso vivo, gli pendeva sul petto, fra le due liste della stola bianca. Il viaggio procedeva tranquillo; ma don Masala era piuttosto in ambasce per la sorte del vecchio parrocchiano. L’incedere piuttosto lento del cavallo poteva essere sopravanzato facilmente da quello ben più rapido (com’egli era solito dire) di sora nostra morte corporale. Pertanto aveva fisso in mente il timore di non giungere in tempo. E di abbandonare così al diavolo l’anima del vecchio di Oluitti. Ma, a quel punto, non gli restava che sperare in bene. Il baio, sordo agli incitamenti del proprio cavaliere, continuava imperterrito a seguire il ritmo usuale; da quell’andatura non lo avrebbe smosso nemmeno una cannonata. Giunto nei pressi della chiesetta di San Giuseppe, il cavallo, che fino allora aveva marciato con passo regolare, drizzò le orecchie e volse la testa in giro; quindi si diede a fremere e a emettere nitriti per nulla rassicuranti. Aveva colto nell’aria qualcosa che lo eccitava; ma che il prete non sapeva (non poteva) individuare. Il baio, che aveva percorso quasi dieci chilometri senza dar noie e con la tranquillità consueta, d’improvviso appariva galvanizzato e nervoso. In breve, aveva fiutato la presenza nei paraggi di una cavalla in calore. Dal fiutarla a localizzarne la posizione il passo fu breve. Poco distante, una splendida murina se ne stava al pascolo a brucare beata. All’interno di un recinto, essa appariva incurante delle brame del maschio assatanato e delle ambasce del cavaliere maldestro che gli stava in sella. Il cavallo del barrocciaio morse il freno, valutò la distanza che lo separava da quell’inaspettata fonte di piacere e si lanciò in un galoppo sciolto nella direzione giusta. Aveva voglia don Masala di tirare le briglie con quanta forza aveva! A nulla servirono i suoi richiami, urlati col poco fiato che gli era rimasto in gola. Tutto inutile. Non c’era verso di fermare quella furia infernale. A separare le due bestie ormai non restava che un muretto, che il cavallo elettrizzato pareva proprio intenzionato a superare d’un balzo. E senza pensarci su due volte. A quel punto, prevedendo ciò che poi sarebbe accaduto, don Masala lasciò andare le briglie, portò le mani al petto e, stringendo la teca preziosa con l’ostia consacrata, non poté fare a meno di gridare: “Gesu Christu meu muntenidebos chi semus mortos!”. Con un salto da manuale, il cavallo superò agilmente l’ostacolo, raggiunse la femmina e fece rapidamente il proprio dovere. Quindi, visibilmente rilassato, tornò accanto al prete. Che era finito a gambe all’aria; ma senza farsi troppo male. Qualche ammaccatura qua e là; roba di poco conto. Don Masala raggiunse ugualmente (ma a piedi) il casolare del moribondo. Che nel frattempo si era ripreso. Evidentemente aveva deciso di rimandare la dipartita ad altra occasione. In ogni caso, la trasferta non fu inutile. Confessione e comunione andarono a buon fine, seguite da un brindisi in favore sia del confessore sia del confessato: se l’erano vista brutta entrambi. Ogniqualvolta veniva in vacanza a Ploaghe, ne approfittava per chiedermi di accompagnarlo a Chiaramonti. Per riabbracciare i miei familiari, che gli erano rimasti affezionati (i miei due figli pendevano dalle sue labbra); ma anche per rivisitare luoghi e persone che, quand’era giovane e povero, gli avevano riscaldato il cuore. Gli piaceva anche riandare al muretto che il cavallo innamorato del barrocciaio aveva superato con agilità per saltare felice sulla splendida murina. Bei tempi, diceva. E, manco a dirlo, gli scappava una risata sonora. Di quelle contagiose.
Cfr. CARLO PATATU, Scuola, Chiesa e Fantasmi, Edizioni Gallizzi, Sassari 2014, pagg. 87-95. |
Ultimo aggiornamento Lunedì 29 Gennaio 2024 14:14 |