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Quando i bulzesi sbarrarono la chiesa |
Domenica 17 Settembre 2023 09:53 |
di Carlo Patatu Ho appena finito di leggere il libro “La variante bianca del ciliegio” (Maxottantottoedizioni, Sassari 2023) del mio caro amico Antonio Addis, sacerdote di origine nulvese che vive stabilmente a Tempio Pausania. Si tratta del racconto autobiografico di un bambino che, concluso il ciclo della scuola elementare nel suo paese, decise di farsi prete, vincendo la ritrosia comprensibile dei genitori. Che non se la sentivano di far fronte alle rette mensili del seminario. Un bambino piuttosto vivace, pronto a venire alle mani per un nonnulla. Da buon nulvese qual era: brigadore. Don Antonio Addis e io siamo accomunati dalla modestia delle rispettive origini familiari. Entrambi godiamo il privilegio di essere nati poveri. Sì, ho detto bene: privilegio. Chi nasce povero, “in banzigu de linna” (in una culla di legno), dispone del poco e prova grande soddisfazione per ogni conquista, fra le tante auspicate. Anche se modesta. Il ricco, nato “in banzigu de oro” (in una culla dorata), ha poco da desiderare. Possiede tutto o quasi. Non deve patire alcunché per appagare i propri desideri. Solitamente i genitori li soddisfano, quei desideri, ancor prima che vengano espressi. Ecco perché, durante la lettura, mi sono emozionato, rivivendo anch’io gli anni della mia infanzia povera, felice e ormai lontana; riproiettando i fotogrammi di quella stagione breve, trascorsa fra persone semplici, la cui modestia proverbiale era pari all’intensità dei rapporti interpersonali. Che, condotti all’insegna della coralità della vita comunitaria, costituivano, essi sì, una vera ricchezza. E così le rispettive esperienze fatte negli anni dell’infanzia collimano sovente. Le emozioni da lui descritte quando, da adulto, andò rivisitare l’antico ovile paterno di Sedderi, sono le stesse da me avvertite allorché sono tornato a rivedere Piluchi, dove ancora restano i ruderi di quella che fu la casa colonica di nonno Pulina. Insomma, essendo entrambi nati e vissuti in due paesi molto vicini, non solo geograficamente, ma anche per cultura, è tanto quel che ci accomuna, a partire da tradizioni e ricorrenze che, ora che siamo vecchi, fanno palpitare i nostri cuori di nostalgia. In misura maggiore i nulvesi, essendo essi più dei chiaramontesi rispettosi delle consuetudini. Il libro è scritto bene, il linguaggio è scorrevole, la lettura accattivante. Scorrendole, quelle pagine mi hanno riportato indietro nel tempo. Anche a ricordare come e quando conobbi don Antonio. In circostanze molto curiose e talmente particolari che non posso fare a meno di raccontarle. Devo premettere che si era a fine Novembre 1979. Io ero corrispondente della “Nuova Sardegna” per alcuni paesi dell’Anglona. Da qualche tempo don Antonio era parroco di Bulzi, poche centinaia di anime che lo adoravano per il suo modo di fare e per il disinteresse che costui mostrava per i beni materiali. La sua era una voce fuori dal coro. Il che aveva indotto in sospetto le autorità curiali della diocesi di Tempio Ampurias. D’altra parte questa storia ha precedenti illustri. Fra i tanti invisi alle gerarchie ecclesiastiche per ragioni incomprensibili ai più mi basta citare Dom Giovanni Franzoni, abate dell’Abazia di San Paolo a Roma e don Lorenzo Milani, priore di Barbiana di Vicchio nel Mugello. Entrambi furono presi di mira e messi in castigo. Una sera squillò il telefono di casa mia. Era la redazione del giornale: “Vai a Bulzi e vedi un po’ cosa accade. La gente è in subbuglio”. Mi precipitai in quel paesetto e mi resi conto che il subbuglio c’era. Altro che se c’era. Il motivo? Il vescovo mons. Carlo Urru aveva trasferito don Antonio, nominandolo cappellano dell’ospedale di Tempio. Con decorrenza immediata. Un fulmine a ciel sereno, un provvedimento incomprensibile ai parrocchiani, che la presero male e dichiararono guerra al presule. Il parroco aveva già fatto le valigie e lasciato il paese. “Vado via a malincuore - mi disse al telefono -, ma sono legato al voto di obbedienza”. Nel frattempo, i bulzesi non se n’erano stati con le mani in mano. Avevano blindato con doppia mandata il portone della chiesa parrocchiale e fatto sparire la chiave. A nulla era servita la mediazione del sindaco Edoardo Multineddu, persona equilibrata e contraria alle levate di testa. Intanto era trascorso quasi un mese e le posizioni dei contendenti parevano irremovibili. La celebrazione di un funerale non aveva smosso di un millimetro la decisione drastica di tenere sbarrato il portone della chiesetta, sorta di recente in un’area periferica dell’abitato e facente funzioni di parrocchia, dato che nella chiesa principaale erano in corso lavori di ristrutturazione. Il rito funebre fu celebrato forzatamente all’aperto. Il Natale si avvicinava a grandi passi e qualcosa si doveva pur far. Fu così che un giorno mi giunse una telefonata da Bulzi. “Chi parla?”, feci io. “Sono quello che ha la chiave della chiesa, - rispose una voce maschile all’altro capo del telefono -. Purtroppo la nostra battaglia è persa; la chiave va restituita. Il vescovo si è impegnato a concedere a don Antonio di tornare in paese Sabato prossimo per la celebrazione di una messa di commiato”. “Ebbene, cosa vuole da me?”, risposi sbigottito. “Che sia lei a restituire la chiave a chi di dovere. Se dovessi farlo io, sono certo che verrei denunciato per il reato commesso. Perché di reato si tratta. Invece potrebbe farlo lei, che è un estraneo…”. Riaprire io la chiesa? E perché no? Da ragazzo ero stato chierichetto e avevo svolto anche le funzioni di sagrestano. Col compito anche di aprire e chiudere la chiesa e suonare le campane. Risposi subito affermativamente al mio ignoto interlocutore e ci accordammo per ritrovarci, alle ore sedici del Sabato successivo, di fronte alla casa comunale. Ed ecco che nella vicenda bulzese avevo finito con l’assumere il duplice ruolo di attore e spettatore. Dovendone poi riferire sul giornale, mi ritrovai a un tempo cronista e protagonista dell’evento, certamente straordinario. Nel giorno e all’ora concordati, giunsi sul luogo dell’appuntamento. Dopo pochi minuti di attesa, si presentò un ragazzino, che mi porse una busta di carta con dentro la famosa chiave. Raggiunsi lo spiazzo sul quale sorgeva la chiesetta. Tutt’intorno era deserto; ma mi sentivo addosso lo sguardo di tanti occhi curiosi che, protetti dalle persiane, seguivano attentamente dalle finestre quanto accadeva. Infilata la chiave nella serratura, con due mandate spalancai il portone. Quindi mi attaccai alla fune collegata alla campana e diedi corso a una lunga serie di rintocchi festosi. In men che non si dica, accorsero tante persone, che si diedero subito da fare per ripulire la chiesa, rassettarne l’altare e riempire di fiori freschi i vasi, in sostituzione di quelli rinsecchiti dopo un mese di abbandono. Alle diciotto, come previsto, giunse puntuale don Antonio, accolto da applausi scroscianti e cinto dalla folla in un unico abbraccio. Quindi entrò in chiesa, rivestì i paramenti e diede inizio alla celebrazione della messa di commiato. Nel corso dell’omelia, volle sottolineare che a Bulzi lasciava il cuore, ma doveva obbedire al vescovo. Ringraziò i suoi ormai ex parrocchiani per l’affetto e la stima che gli avevano dimostrato; ma non mancò di rabbuffarli ricordando che i fedeli devono innamorarsi di Cristo, non dei parroci di turno. Così conobbi Antonio Addis e ne divenni amico. |