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Venerdì 18 Agosto 2023 12:10 | |
Nella Primavera del 1946, dopo la caduta del fascismo, gli italiani furono chiamati a eleggere i consigli comunali e l’Assemblea Costituente e al referendum Monarchia-Repubblica. Per la prima volta votarono anche le donne di Carlo Patatu
urante la dittatura fascista, fatta eccezione per i primi anni Venti, non si tennero elezioni amministrative e non furono eletti consigli comunali, giunte, sindaci. Dal 1926 e sino alla fine della guerra, il governo del comune fu delegato a commissari o podestà di nomina prefettizia, sui quali vigilava con occhio attento e severo il prefetto di Sassari, longa manus del ministro dell’Interno. Relativamente a quel periodo, il maestro Pasquale Brau fu commissario prefettizio dal Novembre 1936 al Maggio 1940. Gli subentrò nell’incarico il dottor Antonio Marcellino dal Giugno 1940 all’Aprile 1941; quindi, ma col titolo di podestà, fu la volta di Tommaso Brunu (agente di polizia penitenziaria a riposo) dal Maggio 1941 all’Ottobre 1943. Dopo il terremoto dell’8 Settembre, la nomina di commissario prefettizio fu conferita a Pietrino Pirina, maresciallo dei carabinieri in pensione (Ottobre 1943 - Giugno 1944); il quale subentrò a sé stesso (Giugno 1944 - Agosto 1945) col titolo di sindaco designato dal CLN, Comitato di Liberazione Nazionale. Al suo posto, ugualmente nominato dal medesimo CLN, assunse la carica di primo cittadino il commerciante Antonio Luigi Cossu (Agosto 1945 - Maggio 1946). Il quale ebbe il compito non facile di traghettare il comune verso la democrazia, organizzando lo svolgimento delle prime elezioni amministrative del dopoguerra. L’esperienza infelice del fascismo si era finalmente conclusa. In modo disastroso, è vero; ma era finita. Chiaramonti, sebbene non si fosse trovato mai in prima linea, patì anch’esso le conseguenze di quel disastro. Ma in misura contenuta, rispetto ad altre realtà della Sardegna e del resto d’Italia. Tutto sommato, non si registrarono eccessi, da queste parti.
Rudimentali transenne, montate frettolosamente con tavole da muratore ancora infarinate di calce, permisero di dividere l’interno della chiesa in due parti distinte, cui si accedeva da ingressi separati: alla sezione n. 1 dal portone principale; alla n. 2 da una porta secondaria posta sul lato sinistro. I seggi erano presieduti da Matteo Quadu, all’epoca giudice conciliatore, e dal citato insegnante Pasquale Brau. Agli scrutatori e al presidente era proibito allontanarsi dal seggio. Nemmeno per un attimo. Tutti dovevano essere presenti per l’intera durata delle operazioni di voto e di spoglio delle schede. Disposizioni severe e restrittive imponevano una tale regola assurda. Che poi fu modificata; ma che all’epoca doveva essere rispettata alla lettera. Ricordo che, in quei giorni fatidici, mia madre m’incaricò di portar da mangiare a mio padre, nominato scrutatore nel seggio presieduto dal signor Brau, allora mio maestro di quarta elementare. Le strade attigue alla via Rosario erano animate da un andirivieni di persone col certificato elettorale a portata di mano. Le donne apparivano più impacciate degli uomini, essendosi trovate, di punto in bianco, a fare i conti con un’esperienza nuova, che vedeva riconosciuto anche a loro (ma senza che ne comprendessero appieno il motivo) un diritto al quale avevano avuto accesso, fino ad allora, soltanto i loro padri, i mariti, i fratelli. E cioè quello di esprimere liberamente il voto tracciando una croce sulla scheda elettorale. In luogo delle autovetture, che ancora non c’erano, in quelle strade si contavano decine di cavalcature bardate a dovere e con le briglie debitamente annodate a sas lorigas. Intere famiglie di allevatori e contadini, che a quel tempo vivevano stabilmente in campagna e che si muovevano di rado per venire fino in paese, si erano messe ordinatamente in viaggio per raggiungere i seggi. Che furono presi letteralmente d’assalto da quei Cittadini con la C maiuscola, divenuti d’un tratto tanto importanti da vedersi blanditi da solerti galoppini elettorali. Lunghe file di elettori si dipanavano dai due ingressi della piccola chiesa, sotto l’occhio vigile e discreto delle forze dell’ordine. Le operazioni di voto andavano a rilento e richiedevano tempi lunghi. Votanti e scrutatori erano ancora alle prime armi e dovevano fare pratica. Ci voleva pazienza. Ma di pazienza la gente ne aveva fin troppa, allora. Inaspettatamente, da noi il referendum Monarchia-Repubblica registrò la sconfitta dei Savoia. In controtendenza rispetto al resto della Sardegna, a Chiaramonti i repubblicani la spuntarono sui monarchici. A dispetto della propaganda martellante, sostenuta da persone anche influenti, e degli inviti pressanti a pregare per il re rivolti persino dal pulpito. Lo scarto dei voti non fu grande; ma di certo significativo per un paese piccolo e povero, da sempre succubo del fascino e del potere esercitato da poche famiglie dominanti. All’elezione dei deputati dell’Assemblea Costituente prevalse la lista della Democrazia Cristiana, dove figurava un candidato locale, l’avvocato Battista Falchi, che risultò eletto. Con lui raccolse una messe di preferenze, a Chiaramonti come nel resto della Sardegna, il capolista Antonio Segni, leader della DC sassarese e futuro Presidente della Repubblica. Alle elezioni comunali furono presentate tre liste: la prima dalla Democrazia Cristiana, che conquistò la maggioranza con dodici consiglieri su quindici, eleggendo così il sindaco nella persona del dottor Gigi Madau. Vice sindaco fu designato Sebastiano Puggioni, anima della sezione locale di quel partito. Del gruppo di maggioranza fecero parte anche Tore Rottigni, Francesco Ruiu, Gavino Canopoli, Giovanni Agostino Canopoli, Andrea Urgias fu Antonio, Gavino Murgia, Gavino Denanni fu Matteo, Giovanni Michele Scanu, Salvatore Lezzeri noto Faricu e Salvatore Quadu noto Foe. Dei tre seggi riservati alla minoranza, due furono conquistati dalla seconda lista (civica), composta da sardisti, socialisti e repubblicani; vi furono eletti Andrea Accorrà e Pinuccio Bajardo. La terza, varata dai comunisti, riuscì a portare in comune un solo consigliere, Nino Soddu. Dei 1.447 elettori iscritti negli elenchi comunali, si recarono a votare in 1.113. L’affluenza alle urne fu pari al 77%. Non male, per quei tempi. Il paese, con un terzo di abitanti in più rispetto a quelli di oggi, negli anni Quaranta contava circa la metà degli alloggi di cui disponiamo attualmente. Si trattava di edifici in prevalenza modesti e privi di servizi igienici. A fornire l’acqua potabile provvedeva l’acquedotto pubblico di Monte Ledda; ma la condotta foranea di adduzione si era fermata a Caminu ‘e cunventu, proprio al confine del centro abitato. Un grosso tubo di ghisa, collocato fra due alberi tuttora esistenti, scaricava giorno e notte nella scarpata sottostante un getto di oltre due litri al secondo. Quel sito era meta di pellegrinaggi incessanti da parte di uomini e donne, ragazzi e ragazze. Armati di pentole, secchi e brocche di terra cotta, tutti erano impegnati a rifornire d’acqua le rispettive abitazioni per gli usi alimentari e domestici. All’ombra di quei frassini, i macellai ripulivano all’ingrosso le interiora del bestiame appena abbattuto nei pressi; qualche donna lavava la biancheria. Ma, per questa incombenza, le massaie preferivano servirsi delle capaci vasche di Funtanedda e di Funtana Noa, poste nelle immediate periferie del paese, rispettivamente a Ovest e a Nord. Poche famiglie, più fortunate, disponevano in casa di un pozzo, cui potevano accedere anche i vicini; ma soltanto per concessione benevola del proprietario.
Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 20-24.
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