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Assalto alla carrozza postale – 2a e ultima parte |
Domenica 22 Maggio 2022 18:01 |
di Carlo Patatu A un certo punto, la strada gira a sinistra e scavalca un fossato passando su un ponticello. A valle, un muraglione delimitava allora il piano stradale e proteggeva da possibili sconfinamenti dei veicoli nella scarpata sottostante; a monte, una cunetta ampia convogliava le acque sotto la carreggiata. La sovrastava un cespuglio di rovi. Enorme. E che ora non c’è più. Qui giunti, la conversazione dei quattro viaggiatori fu interrotta all’improvviso. “Altolà, fermi tutti!”. L’ordine perentorio, proveniente dal cespuglio, gelò cocchiere e passeggeri. Un balzo e a terra. I carabinieri non si diedero nemmeno il tempo di azionare le armi. Guadagnarono velocemente la cunetta per infilarsi sotto il ponticello, dalla parte del cespuglio. Li seguì rapido Garibaldi. Che dell’eroe dei Due Mondi sapeva di portare soltanto il nome. Giulio, ritenendo di trovare rifugio nella scarpata, saltò giù sul lato opposto. Coprì di corsa lo spazio breve che lo separava dalla salvezza, con l’intento di scavalcare il muraglione. Ce l’aveva quasi fatta, quando partì una scarica. Forse un mitra. L’uomo, colpito al basso ventre, si aggrappò disperatamente al muro. Si arrestò in bilico per un istante; poi cedette la presa e cadde riverso al suolo su una pozza di sangue. Vittima di un’emorragia, morì nel volgere di qualche minuto. E Fanfulla? Stava per diventare un eroe e non lo sapeva. Spaventato dagli spari e privo di guida, diede fondo alle energie residue e si lanciò al galoppo sfrenato. Uno degli assalitori, il viso coperto da un passamontagna, balzò sulla strada, raggiunse la carrozza, afferrò un sacco postale e tentò di agguantare l’altro. Che poi era quello buono; il vero e unico scopo di quell’impresa tragica. Ci provò più volte il malfattore; ma la carrozza, sebbene fosse quasi a portata di mano, continuava a sfuggirgli. L’esuberanza imprevista di Fanfulla ebbe la meglio e lo indusse presto a desistere. Pertanto quell’uomo saltò agilmente oltre il muretto a monte della strada, si arrampicò veloce sul declivio e scomparve nel bosco circostante. Il cavallo percorse di slancio i milleottocento metri che ancora lo separavano dal paese. Si lasciò alle spalle la curva de Sa Funtana ‘e su Duttore; quindi Funtanedda, Contones e Su Domaniu[1]. Qui intravedeva già le prime case dell’abitato. Sempre al galoppo, macinava la strada che ancora gli restava da percorrere. Si arrestò docilmente soltanto quando giunse all’altezza dell’asilo infantile. Di fronte c’era la rimessa del nostro carrozziere, dove il bravo Fanfulla solitamente riposava e si nutriva di biada saporita. Si fermò d’istinto perché il suo viaggio doveva concludersi lì. Era quello il suo capolinea. Un passante diede la voce al cavallo privo di guida e ne afferrò le briglie, cercando di capire cosa fosse accaduto. Fanfulla aveva il corpo grondante sudore. La bocca coperta di schiuma biancastra. Mancava un quarto a mezzogiorno. Accorsero subito alcuni curiosi, che fecero capannello intorno alla vettura, rimasta incomprensibilmente senza cocchiere. Uno dei presenti recuperò il plico prezioso e corse a consegnarlo all’ufficio postale. Altri si presero cura del cavallo e della carrozza. Tutti si chiedevano cosa mai poteva essere capitato a Garibaldi. Si era forse sentito male? O si era attardato a chiacchierare con qualcuno lungo la strada? Impossibile. Mai si era separato dal suo cavallo durante il servizio. Mah! Poi a qualcuno venne in mente che, all’andata, la carrozza aveva lasciato il paese con i carabinieri. Che, invece, non c’erano più. Poco dopo, giusto il tempo di raggiungere il paese a piedi, comparve Garibaldi. Il viso stravolto dallo spavento, sudato, ansimante e trafelato prese a raccontare confusamente la brutta avventura. I carabinieri, diceva, erano rimasti là. A vigilare sul cadavere del povero Giulio. Avevano tentato invano d’inseguire i malviventi. Che, scommetteva, dovevano essere stati almeno due. Sentimenti di stupore, commozione, rabbia e riprovazione si mescolavano negli animi e si materializzavano nelle parole della gente. Le circostanze del delitto, la protervia e la ferocia con cui era stato commesso in danno di un uomo stimato destavano orrore nella popolazione. Che pure, da queste parti, aveva assistito a ben altro, in passato. Nonostante lo stato di concitazione, c’era chi riusciva persino a ironizzare sul comportamento eroico di Garibaldi, persona del tutto incapace di reazioni violente. Era una pasta d’uomo. L’uomo non riusciva a dare risposte sensate ed esaurienti a chi gli chiedeva spiegazioni e da varie parti gli tirava ripetutamente la giacchetta. Ancora in stato di shock, il carrozziere continuava a ripetere all’infinito le fasi salienti del fattaccio. Ma vi aggiungeva ogni volta qualche particolare nuovo. Appariva evidente il suo sforzo ingenuo di raccontare l’accaduto, ma con l’intento di accreditare nell’uditorio la tesi di un suo comportamento diverso da quello ch’era stato nella realtà. Chi gli stava intorno si sforzava di dargli credito; ma intanto ciascuno continuava a porre domande. Tante domande. Alle quali il povero Garibaldi rispondeva imperterrito con la solita litania. Non ce la faceva, pover’uomo, a seguire un filo logico. Chi poteva dargli torto? Col passare dei giorni, ogni particolare del fattaccio fu chiarito dai carabinieri. I due assalitori, chiaramontesi entrambi (uno, addirittura, cugino della vittima), furono identificati e assicurati alla Giustizia. Garibaldi e il suo cavallo tornarono alle occupazioni di sempre. A ricordare visivamente l’agguato di Giuanne Zegu, restavano (e ci rimasero a lungo) una enorme chiazza di sangue impressa sul piano stradale chiaro, il muraglione scheggiato dalla scarica di pallottole e un mucchio di cenere al posto del grosso cespuglio di rovi. Al quale il proprietario di quel terreno si era premurato di dare fuoco; quasi a voler cancellare, insieme al roveto, il ricordo della brutta vicenda. Ma nel nostro immaginario di bambini restava impressa, nitida e luminosa, la figura straordinaria di Fanfulla, eroe solitario di una giornata tragica. Quel cavallo si era comportato come un umano. Anzi, meglio. “Come la Cavallina Storna”, ebbe a sottolineare, il giorno dopo, il maestro Brau[2], commentando a scuola l’accaduto e chiedendoci di raccontarlo nello svolgimento del tema settimanale.
2 – fine
Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 99-105 |
Ultimo aggiornamento Domenica 22 Maggio 2022 18:04 |