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S’abba ‘e s’oju – quarta parte |
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di Carlo Patatu
hi era esperto nello svolgimento di quella pratica, in genere una donna, reggendo con la mano sinistra un bicchiere riempito d’acqua per tre quarti, faceva sedere dinanzi a sé il paziente. Con un granello di sale stretto fra pollice e indice della destra, lambiva in quattro punti il bordo del bicchiere nel segno della croce e farfugliava a voce bassa parole incomprensibili. Poi lasciava cadere il sale nell’acqua. Di sicuro biascicava una preghiera. Che però recitava senza farsi intendere da chi le stava vicino. E così per tre volte di seguito. Quindi immergeva la falangetta del mignolo destro in un contenitore di olio d’oliva e ne lasciava colare tre gocce dentro il bicchiere. In punti diversi. Quando l’auspicio si manifestava favorevole, le gocce d’olio galleggiavano restando separate fra loro. Se, invece, qualcosa si metteva di traverso, le tre gocce si riunivano in una sola. Segno indubbio che si era in presenza di una qualche malasorte. Il che non mancava di destare sconcerto nella maga, la quale non faceva a meno di trasmetterlo agli astanti, fissandoli in silenzio; ma con un’espressione tanto eloquente da non lasciare adito a incertezze. E allora? Allora prendeva corpo l’eventualità di andare incontro, presto o tardi, a dei guai. Ai quali si poteva porre rimedio, o almeno ci si tentava, ripetendo più volte il rito. In genere, s‘àbba ‘e s’òju era aggòlta[i] di primo acchito. E, se non proprio alla prima, in genere in una delle prove successive. A cerimonia conclusa, la maga invitava il paziente a bere con fiducia il contenuto del bicchiere. Per rinforzare l’effetto del beneficio appena ottenuto e prolungarne l’efficacia. E se l’espediente, ancorché ripetuto più volte, non andava a buon fine? Beh!, allora era il caso di rassegnarsi all’idea che l’artefice del maleficio poteva essere senz’altro più potente di chi si arrabattava per annullarne gli effetti. A quel punto, chi non si piegava ad accettare il responso sfavorevole, come ho già detto, andava a bussare ad altre porte. E, se indisposto in maniera grave, a quella del medico. Ma stavolta con insistenza e determinazione maggiori. Facendo pure la voce grossa, se necessario. Circa le modalità di architettare o annullare un sortilegio a richiesta, la casistica era assai varia. Sull’argomento correvano storie molto strampalate che, passando di bocca in bocca, facevano il giro del paese e dintorni. Le domande d’intervento erano varie e, talvolta, persino strane. A sottoporle all’attenzione dei maghi erano per lo più amanti smaniosi di giungere al dunque. O in odore di tradimento. Inoltre si rivolgevano disperati ai fattucchieri quei malati gravi che i medici avevano diagnosticato incurabili. Sia perché effettivamente tali o perché non ci avevano capito un bel niente. Capitava anche allora. Sta il fatto che, nei casi di necessità, era abbastanza consueto ricorrere a maghi e cartomanti, taluni più e altri meno gettonati, nei quali una clientela devota di creduloni disperati non sapeva fare a meno di confidare. Anche pagando con danaro contante, se richiesto. Mi preme sottolineare che erano numerosi gli stregoni che non reclamavano alcun compenso per quel genere di prestazioni. Tuttavia essi mostravano di gradire gli omaggi coi quali i miracolati di turno erano ben felici di riempigli la casa. Per sdebitarsi, in qualche misura, e manifestare gratitudine. C’è da dire, inoltre, che taluni di quei majàlzos[ii] non si prestavano a ordire malefici a domanda in danno di persone o cose. In genere, non volevano avere niente a che fare con interventi che, oltre a procurare malanni, avevano il sapore acido della vendetta rancorosa. E se talvolta a costoro capitava d’imboccare quella strada, lo facevano unicamente di propria iniziativa e in presenza di offese gravi subite di persona. Oppure, come poteva accadere in qualche circostanza, al cospetto di episodi reiterati e imperdonabili d’incredulità manifesta subiti in pubblico, specie se accompagnati da maldicenza, dileggio e discredito.
Ma guai a incorrere nella sua ira funesta. Era capace di far cadere a valanga malanni di ogni genere su chi osava dileggiarlo, deriderlo o screditarlo. L’uomo sapeva vendicarsi come si conveniva sui criticoni imprudenti, arroganti e villani. Mio nonno richiamava spesso la vicenda stupefacente di un giovane compaesano presuntuoso e maleducato. Costui, incapace di manifestare con modi urbani il proprio scetticismo verso i cosiddetti prodigi di cui era autore Giarrètte, provava un gusto matto a prenderlo in giro, sbeffeggiandolo e denigrandolo in ogni occasione. Tant’è che, in una circostanza particolare, si spinse fino a sfidarlo pubblicamente: “Faghìdemi sa majìa chi cherìdes, tìu Giommari’, - ebbe l’audacia dirgli con arroganza - e poi dàdemi a nètta ‘ostra![v]”. Detto fatto. Giarrètte non se lo fece ripetere due volte. Tornato a casa, si mise all’opera senza indugiare un solo minuto. Tant’è che, verso sera, qualcuno bussò ripetutamente alla sua porta, chiedendogli concitato di recarsi con urgenza a casa del giovane sbruffone, che reclamava a gran voce la sua presenza. Il mago capì subito di che si trattava e uscì di fretta. Come già aveva previsto, trovò il suo uomo che si dimenava sul letto urlando a squarciagola e invocando la carità di essere liberato dalla condizione di grande sofferenza in cui era venuto inopinatamente a trovarsi. Un dolore lancinante e insopportabile lo affliggeva dalla cintola in giù. In particolare gli facevano male, ma molto male, le parti più riposte e intime. Quelle che, pure sotto l’effetto di un eventuale sortilegio, il fanfarone si era vantato di chiamare in causa con orgoglio maschio e godimento immenso, se avesse avuto la possibilità di mettere le mani sulla giovane e avvenente nipote del mago. Il quale, avendo intuito in anticipo l’evento cui gli era dato di assistere, si concesse il piacere sadico di osservare la scena a lungo, restandosene in disparte, imperturbabile e silenzioso. Nel frattempo, il poveretto seguitava a sbraitare fuori di sé e a contorcersi implorando disperatamente aiuto. A un certo punto, Giarrètte si avvicinò al letto con passo misurato e, alzando il tono della voce perché i presenti potessero udirlo distintamente, chiese al malcapitato: “E ìte nde nàras bèllu be’, a la chères còmo a nètta mìa? Nàrami si la chères, gài ti l’àpp’a battìre luègo![vi]”. Figurarsi se quello là aveva voglia di rispondergli. Men che mai in modo affermativo. Con quanta voce gli era rimasta in gola, non faceva altro che chiedere perdono, scongiurando il fattucchiere di liberarlo al più presto dalla situazione in cui lo aveva cacciato. Dopo in po’, tìu Giommarìa fece quanto gli compateva. E così la vicenda volse al lieto fine. Giarrètte si sentì appagato e il giovane imparò la lezione. A proprie spese. 4 – continua
Cfr. CARLO PATATU, Il paese che non c’è più, ed. Grafiche EsseGi, Perfugas 2016, pagg. 247-267. [i] Si concludeva con esito favorevole. [ii] Maghi. [iii] Un mago di Ploaghe. [iv] Sulla figura singolare del mago ploaghese, cfr. PASQUALE DEMURTAS, La magia di un uomo buono - tìu Giarrette, anime e demoni, Youcanprint, Tricase (LE) 2014. [v] Preparate pure contro di me il maleficio che vi pare, zio Giommaria, e poi affidatemi vostra nipote. [vi] Ebbene, cos’hai da dirmi, bello mio, ora la vuoi proprio mia nipote? Dimmi se la vuoi, così ti accontento subito!”. |
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Ultimo aggiornamento Giovedì 13 Gennaio 2022 17:52 |