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S’abba ‘e s’oju – terza parte |
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Martedì 11 Gennaio 2022 17:32 | |
di Carlo Patatu
l canto del gallo poco prima di mezzanotte faceva correre i brividi lungo la schiena e accapponare la pelle a chi aveva la ventura di udirlo. Quel trillo, di solito allegro e squillante, deputato a salutare il sole del nuovo giorno, se udito in quel frangente era invece foriero di sventure. Chissà perché. Mi accadeva di udirlo qualche volta nelle serate estive; quando, in compagnia dei vicini, si tirava a far tardi seduti accanto all’uscio di casa, assaporando la brezza notturna gradevole e ristoratrice. Al contrario, d’inverno si andava a letto presto. In una comunità a economia prevalentemente agropastorale, la comparsa in cielo de s’istèlla ‘e chenadòrzu[i] segnava l’ora di mettersi a tavola. Dopo di che, in situazioni ordinarie, durante la stagione fredda non restava tanto tempo (né tanta voglia) per le chiacchiere del dopo cena. Tutti a nanna di buonora. Quel trillo, inatteso e temuto, provocava nelle persone reazioni anche scomposte, con seguito d’improperi irripetibili nei confronti del povero e inconsapevole volatile. D’altra parte, che colpa poteva avere quel gallo? Forse che gli si poteva negare il gusto di cantare all’ora che più gli piaceva? E invece no. Stando alla credenza comune, l’allegro pennuto non avrebbe dovuto fare di testa propria. Ad avviso dei più, di notte gl’incombeva il solo obbligo di starsene rannicchiato nella scaletta del pollaio; muto e pesto, soffocando ogni impulso canterino. Che pretesa! Insieme a su pùddu ‘e mesanòtte[ii] godeva fama pessima anche s’istrìa[iii]. Il suo verso, se emesso dopo il tramonto, incuteva terrore. Non esagero, era proprio così. Non avevamo la capacità né il buon senso di accettare con naturalezza che gli animali obbedissero ai propri istinti, invece che alle nostre fisime, infischiandosi altamente delle nostre ansie, delle nostre superstizioni, delle nostre paure. Essi, e meno male, facevano allora e continuano a fare oggi quel che detta l’istinto. Facevano bene allora come fanno bene adesso. Ecco perché, col passare degli anni, maturando con l’esperienza e leggendo un po’ di libri, ho imparato a sorridere di quelle credenze bislacche. Che pure hanno condizionato fortemente e a lungo la mia vita e quella di molti altri. Mai potrò dimenticare lo sgomento che mi assaliva quando, recitate le preghiere serali, raggomitolato sotto le coperte con gli occhi chiusi in attesa di prendere sonno, uno dei galletti del nostro pollaio se la cantava bel bello anche a ora insolita. Del resto, non avendo dimestichezza con l’orologio, quello là era ignaro e del tutto inconsapevole (beato lui!) di procurarmi tanta paura. Di tenermi desto a lungo. E in ansia.
Stando alla voce comune, il modo più sicuro per prevenire eventuali accidenti era quello d’indossare il “breve”. Che, così assicurava mia madre e così credevamo un po’ tutti, costituiva un baluardo pressoché invalicabile nei confronti de su malìgnu e de su pindàcciu[iv]. Da qui la cura estrema nel non privarsi mai di quell’amuleto, da tenere ben stretto dalla parte al cuore. C’era ancora un altro modo per dribblare ogni possibile intoppo: s’àbba ‘e s’òju[v]. Che, a seconda delle esigenze, poteva produrre effetti sia di prevenzione che di cura. Era sulla bocca di tutti la vicenda di un giovane militare che, ogniqualvolta tornava in paese per un periodo di licenza, non usciva mai di casa se prima una sua fidata vicina non gli aveva “fatto” s’àbba ‘e s’òju. Dopo di che, certo di essersi garantito, per quel giorno, una protezione a prova di bomba contro il malocchio e non solo, se ne andava in giro tronfio e pieno di sé, lucido di brillantina e odoroso di lavanda. Ignaro del fatto che più d’uno gli rideva dietro. E quand’era in servizio? Anche in quella sede aveva individuato una fattucchiera che, a pagamento, compiva soltanto per lui il rito quotidiano de s’àbba ‘e s’òju. Si trattava, com’era evidente a tutti fuorché all’interessato, di una fissazione bella e buona, che lo accompagnò fino alla tomba. Ma i più ricorrevano a quella pratica di magia soltanto al bisogno. Tant’è che, in presenza di malesseri come emicrania, astenia, febbre, nausea, capogiro e simili, nell’immediatezza non si faceva ricorso all’armadietto domestico dei medicinali, che non c’era proprio. Né al medico, che, in prima battuta, era solito licenziare il paziente con frasi assertive e liquidatorie tipo no est nùdda, già t’hàda a passàre luègo[vi]. Andare in farmacia? Neppure, perché inesistente. Antipiretici, antibiotici, antistaminici e antinfiammatori erano farmaci pressoché sconosciuti. Pertanto, confidare in s’àbba ‘e s’òju era una conseguenza logica, obbligata. Quasi un atto dovuto. Una sorta di primo soccorso. 3 – continua
Cfr. CARLO PATATU, Il paese che non c’è più, ed. Grafiche EsseGi, Perfugas 2016, pagg. 247-267. [i] Alla lettera, la stella che indicava l’ora di cena; e che stella non era, trattandosi del pianeta Venere. Ma i nostri vecchi non stavano lì a sottilizzare; tutti i puntini luminosi che comparivano in cielo di notte erano stelle. [ii] Il gallo che canta a mezzanotte. [iii] Il gufo o barbagianni, noto anche come puzone ‘e malauguriu, uccello del malaugurio. [iv] Il maligno e lo iettatore. [v] Alla lettera, “l’acqua dell’occhio”, rimedio solitamente efficace contro il malocchio. V. Infra. [vi] Non è niente, passerà presto. |
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Ultimo aggiornamento Martedì 11 Gennaio 2022 17:51 |