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Il campo sportivo di Chiaramonti – prima parte |
Mercoledì 07 Aprile 2021 16:07 | |
Uno spiazzo roccioso sull’altopiano di Codinarasa, in leggera pendenza e battuto da un maestrale impetuoso, fu il primo terreno di gioco sul quale si cimentarono coraggiosamente i primi eroi del calcio nostrano di Carlo Patatu
miei primi calci li diedi a una palla di pezza. In mancanza di meglio, in periodo di guerra, ci si arrangiava così. Un po’ di stracci messi insieme, legati fra loro alla bell’e meglio, assumevano la parvenza di quella che doveva essere una palla da calciare. Che non rimbalzava; per cui il gioco, si fa per dire, si dipanava prevalentemente terra terra (in tutti i sensi). Niente lanci sulle ali, né possibili tiri di testa. Le incornate in porta, che oggi i cronisti sportivi descrivono con efficacia straordinaria, erano improponibili con quel genere di palla. Che, per giunta, aveva pure lo svantaggio d’inzaccherarsi di fango, acqua, urina e quant’altro si scaricava sulle strade, in un paese ancora privo di acquedotto e fognature. Il mio primo campo di gioco fu Sa carrela ‘e s’Avvocadu, e cioè il largo Azuni, uno spiazzo di forma vagamente trapezoidale con la base maggiore delimitata dall’imbocco della via Vittorio Emanuele II (Piatta[1]), dalle casette di tia Giuseppina Foareddu[2] e tia Maria Pedruzza[3]; la base minore era una linea ideale che univa lo spigolo della casa Falchi al portone di tiu Angheleddu. Lungo quelle basi collocavamo le porte, larghe quattro o cinque passi e delimitate in maniera approssimativa da un paio di pietre. Che ciascuna delle squadre contendenti tentava surrettiziamente di avvicinare o allontanare fra loro. A seconda della convenienza. A materializzare le linee laterali del nostro rudimentale campo sportivo stavano, da una parte il palazzotto dei Falchi; dall’altra la casa dei miei compagni di scuola Angelino e Agnesina Migaleddu (quella casa passò successivamente a Pietro Pola senior), il garage del dottor Falchi e la palazzina di tiu Angheleddu. Il terreno di gioco, ricoperto da selciato di calcare bianco, convergeva inclinato sull’asse mediano della piazzetta, per favorire il deflusso delle acque piovane e dei liquami scaricati usualmente dalle finestre che vi si affacciavano. Giocare su quel campo con una palla tanto rudimentale non era agevole; ma non c’era di meglio. L’assoluta mancanza di traffico automobilistico offriva il vantaggio di non dovere mai interrompere le azioni di gioco. Le partite duravano quanto duravano. Non c’erano primi né secondi tempi; e nemmeno quelli supplementari. Gli incontri s’interrompevano quando non se ne poteva più; o al giungere di un richiamo da casa, oppure se il tocco della campana ci richiamava in chiesa per le funzioni, il catechismo o altro. Di arbitri nemmeno l’ombra. Non se ne sentiva il bisogno. La palla non andava mai in fallo né in corner. L’azione s’interrompeva soltanto se la sfera era stata calciata in porta o aveva oltrepassato la linea ideale del fondo campo. Le punizioni si assegnavano solo quando un giocatore, al di là delle intenzioni, toccava la palla con la mano. Cosa peraltro non sempre facile da stabilire, tenuto conto che quel mucchietto di stracci, come ho già detto, poteva sollevarsi in aria un palmo appena o poco più. Di rigore manco a parlarne. Mancava lo spazio necessario per delimitarne l’area. E poi, a ben considerare, la lunghezza complessiva di quel campo non superava una trentina di passi. Nei casi dubbi, si decideva insieme; ma dopo discussioni animate, sofferte e inconcludenti; e che, in genere, duravano più a lungo del necessario. Se poi non si riusciva a raggiungere un accordo onorevole e condiviso, una bella scazzottata sistemava ogni cosa. Dopo di che il gioco si poteva pure riprenderlo. Magari con addosso qualche graffio in più e ripartendo da zero. Un giorno, frugando nella soffitta magica del signor Antonino Falchi[4], ebbi la bella sorpresa di trovarci un vecchio pallone di cuoio, tutto spelacchiato e polveroso; di quelli che avevano una stringa robusta a chiuderne il pertugio per introdurvi la camera d’aria. Probabilmente quel pallone era appartenuto a suo figlio Battista, quand’era ragazzo. Il signor Antonino mi regalò quel cimelio, accompagnandolo con la raccomandazione di farne un uso discreto e non disturbante per i vicini di casa, taluni dei quali erano piuttosto insofferenti ai giochi chiassosi dei bambini. Il pallone, dunque, lo avevamo. Ma non la camera d’aria. Che, essendo di gomma, si era deteriorata per via della lunga inattività. Non potevamo comprarne una nuova perché, soldi a parte, in vendita non ce n’era. In tempo di guerra risultava già difficile procurare beni di prima necessità; figurarsi quelli voluttuari. Che fare, dunque? Il problema fu risolto, in modo non egregio ma di certo fantasioso, sostituendo la sfera di gomma con una vescica di maiale. A Novembre facemmo il giro del paese, alla ricerca di quel ricambio prezioso e chiedendolo in regalo a chi aveva ammazzato il maiale per il consumo domestico. Non tutti erano disposti a privarsi di quell’organo, utilizzato tradizionalmente dalle massaie per conservarci lo strutto ricavato sciogliendo il grasso e il lardo che non era possibile conservare sotto sale. Ma, tenuto conto che ciascuno dei giocatori poteva contare sul maiale di famiglia e di qualche parente, di vesciche riuscimmo a procurarne poco più di una decina; non erano proprio sferiche, ma sufficientemente elastiche. Una volta liberate da ogni residuo di urina e risciacquate alla meglio, le conservavamo sotto sale e all’aria aperta, per ritardarne la decomposizione. Introdotta all’interno della guaina di cuoio e gonfiata con la bocca finché c’era fiato, quella specie di camera d’aria biologica, come d’incanto, trasformava la massa informe delle pezze di cuoio cucite fra loro in un pallone coi fiocchi. Che rimbalzava a dovere e, se calciato con precauzione per via della sua fragilità, spaziava agilmente da una parte all’altra del nostro campetto. Il quale, dopo la trovata della vescica di maiale, si dimostrò ancor più inadeguato a svolgervi le partite.
Volando finalmente alto, il pallone andava a finire sui tetti circostanti. O contro i vetri di qualche finestra. Calciato oltre la casa Falchi, una volta rotolò nel cortile interno de s’Avvocadu. Che, in più occasioni, aveva protestato vivacemente e con rabbia per le nostre urla, che lo disturbavano nel godimento della rituale pennichella pomeridiana. Bussammo con circospezione alla sua porta; al famiglio che si affacciò sollecito chiedemmo con cortesia di andarci a ricuperare la palla in cortile. Quell’uomo ci ascoltò in silenzio, dopo di che sparì fra le arcate dell’androne, sotto la scala. Ricomparve subito dopo, tutto contento: teneva fra le mani il nostro prezioso pallone. Che era ancora bello gonfio; non aveva subito danni. Così, almeno, ci pareva. “È questo?”, chiese l’uomo con un sorriso luciferino. Al nostro cenno di assenso, mise lesto la mano in tasca, ne trasse una pattadese di taglia media e, prima ancora che potessimo renderci conto di quanto stava per accadere, pugnalò il pallone con vigore, ferendo a morte la vescica che lo teneva precariamente in vita. Ecco perché decidemmo d’individuare uno spazio nuovo. Col pallone che volava di qua e di là, quel campo era divenuto decisamente angusto. E poi non intendevamo avere altre noie col famiglio de s’Avvocadu. Armi e bagagli, ci trasferimmo nello spiazzo di Caminu ‘e cunventu, oggi largo Nicolò Vare[5]. Lì c’era veramente da sbizzarrirsi, in quanto l’area individuata per il gioco era più che spaziosa. Ci voleva più fiato, è vero, a correre in continuazione su e giù per il nuovo campo, che si era dilatato notevolmente; ma di fiato (allora) ce n’era da vendere. Il guaio grosso, invece, era rappresentato dalla mancanza assoluta di confini certi, per cui le discussioni sui falli laterali diventarono ogni giorno più accese e senza sbocco. Non era facile accordarsi; nemmeno su un minimo di regole finalizzate a stabilire se il pallone aveva o no oltrepassato le linee laterali o quelle di fondo (sempre ideali). Come pure se era andato oltre la linea immaginaria che passava per le grosse pietre collocate a materializzare le porte. Quel trambusto non durò a lungo. Ebbe termine quando i nostri calci, sferrati forse con agonismo ed energia oltre misura, finirono col fiaccare la resistenza della vescica del maiale. Che, con un eccesso di ottimismo, avevamo promosso troppo frettolosamente al rango di camera d’aria. E che invece aveva vita breve, poiché scoppiava in continuazione. E comunque ben prima del tempo che mettevamo in conto. È vero che riuscivamo a sostituirla, sottoponendo la palla a un intervento abbastanza complicato. Ma, alla lunga, la scorta delle vesciche si esaurì. Fu così che tornammo mesti al pallone di pezza. E quindi al campetto di largo Azuni. Per procurarci i ricambi di quelle camere d’aria di doveva attendere l’autunno successivo.
1 - continua
Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 197-205 [1] Cioè Piazza; in realtà era una via larga, ma la si chiamava così perché, essendoci la casa comunale e l’ambulatorio (in passato anche la scuola), era un po’ il centro amministrativo del paese. [2] Quel nomignolo si richiamava al marito Salvatore, Foe in sardo; era piccolo di statura, da qui il diminutivo Foareddu. [3] Cfr. Assalto alla carrozza postale, pagina 61. [4] Cfr. Il signor Antonino Falchi, pagina 101. [5] Nativo di Chiaramonti, Nicolò Vare fu delegato a rappresentare l’Anglona nella pace siglata a Cagliari nel 1388 fra il re don Giovanni d’Aragona e la giudicessa Eleonora d’Arborea. Cfr. CARLO PATATU, Chiaramonti, le cronache di Giorgio Falchi, ed Studium adp, Sassari 2004, pagina 264. |
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Ultimo aggiornamento Mercoledì 07 Aprile 2021 16:47 |