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Sa Levatrice - 1a parte |
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Giovedì 07 Gennaio 2021 00:26 | |
Il ricordo delle ostetriche della condotta comunale resta ancora vivo nelle persone che le hanno conosciute e hanno beneficiato della loro assistenza in anni difficili, quando gli ospedali erano lontani e le ambulanze, per chi viveva in paese, pressoché inesistenti. di Carlo Patatu
e oggi chiedete a un ragazzo chi era sa levatrice, di sicuro non sa rispondere. Eppure, fino alla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, quella figura era assai popolare nei paesi. Era l’ostetrica, professionista che si faceva carico delle gestanti, le assisteva durante il parto e prestava le prime cure ai neonati.
In genere quelli della mia generazione e tanti delle successive non nascevano in clinica, ma a casa. Aprendo gli occhi al mondo, il primo volto sul quale fissavano lo sguardo era quello dell’ostetrica. Che pertanto chiamavamo affettuosamente Mammai. Una seconda mamma. L’ostetrica non si prendeva cura soltanto di assistere le donne prima, durante e dopo il parto, ma anche praticando iniezioni e medicazioni a giovani e anziani di entrambi i sessi; ma anche con interventi che niente avevano a che fare con gli obblighi strettamente professionali. E così entrava in ogni casa. Tutti abbiamo avuto a che fare con sa levatrice, ricevendone sollievo e conforto. Nel bene e nel male, ci è stata di grande aiuto. Sempre. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, la mia famiglia ospitò ben tre ostetriche: Pia Dal Col, sua sorella Gemma Agnese e Clelia Losetti. Tutte provenienti dal Nord Italia, patirono insieme a noi povertà, privazioni e disagi, condividendo gioie e dolori. La prima fu catapultata in Sardegna dalle montagne bellunesi, giungendo in paese nei primi anni Trenta del Novecento. Prese alloggio dal mio nonno materno Salvatore Pulina, pastore, che aveva la casa disponibile in Carrela ‘e su puttu (via Lamarmora), poiché, insieme a mia nonna e ai sette figli, viveva stabilmente in campagna. A Piluchi, lungo la strada che porta alle chiese campestri di Santa Maria de Orria Pitzinna e Santa Giusta.
Quella donna straordinaria, ridendone, non mancava di raccontare che, sbarcata a Terranova (oggi Olbia) e giunta in treno a Ploaghe, si servì della diligenza di Giommaria Fara per raggiungere l’abitato. Qui sostò alcune ore presso una locanda, in attesa della vecchia e traballante corriera che, proveniente da Sassari, l’avrebbe portata a Chiaramonti. Nella circostanza, ebbe modo di scambiare qualche parola con la titolare della trattoria, sentendosi dire che Chiaramonti era un paese di banditi e di delinquenti. Che i morti ammazzati, in quel borgo di pastori rozzi e primitivi, erano una sorta di normalità; che, qualche anno avanti e a scopo di rapina, alcuni malfattori avevano massacrato addirittura una famiglia intera. Figurarsi l’angoscia di quella donna, proveniente da una zona povera ma pacifica del Veneto. Prese la corriera e, col cuore che batteva a mille, giunse a Chiaramonti. Fu subito accompagnata nella casa comunale, in Piatta (via Vittorio Emanuele). Qui chiese di parlare col podestà. Si aspettava d’incontrare un omaccione grossolano, barbuto e con l’immancabile fucile a portata di mano. Invece, aperta la porta dell’ufficio, le si parò davanti un signore bello, elegante e dal fare molto cortese. Indossava giacca, cravatta e, sul capo ricciuto, un cappello di feltro a falde tese. Quell’uomo era il dott. Gigi Madau, che l’accolse con un sorriso aperto e rassicurante. La fece accompagnare a casa di mio nonno, dove trovò ad accoglierla mia madre. La presenza di una donna nella nuova dimora le fu di grande conforto. Ciononostante, quando andò a dormire, si chiuse a chiave e, per maggior sicurezza, addossò alla porta il comò, terrorizzata dai racconti di un prete che, conosciuto sul treno, le aveva detto che, nei luoghi in cui era diretta, era in corso una faida tremenda. Il che le era stato confermato dalla titolare della locanda di Ploaghe. Le cose poi andarono diversamente. La “signorina”, nata e vissuta in campagna, non temeva la fatica; s’integrò così bene che a Chiaramonti pareva nata. Con qualche eccezione per la lingua. Imparò in fretta a comprendere il sardo; ma non riuscì mai a parlarlo se non storpiandolo in modo buffo. Il paese non aveva servizi igienici, né acqua corrente nelle abitazioni; contava una popolazione di poco superiore ai duemila abitanti, di cui quasi cinquecento stabilmente residenti nell’agro. Che allora si estendeva per quasi 120 Kmq. Ciò comportava il dovere di assistere pure partorienti in casolari isolati, distanti fino a una quindicina di chilometri, da percorrere a piedi o a cavallo. Ma lei era una montanara tosta. Abituata a scarpinare per monti e valli della sua zona, non ne soffrì più di tanto. Se sono vivo, lo devo soprattutto a lei. Ammalatomi di malaria e paratifo quando avevo appena due anni, mentre mia madre mi raccomandava a sant’Antonio, fu lei a curarmi per lunghi mesi, trafiggendo i miei glutei con centinaia d’iniezioni. Molto dolorose e altrettanto efficaci. Grazie a lei, fui bilingue fin dalla nascita: in famiglia e fuori parlavo sardo, con Tata (così la chiamavo) in italiano. Sposò un fratello di mia madre (zio Giommaria era carabiniere in Alta Italia) e nel 1938, se non ricordo male, rientrò in Veneto, stabilendosi definitivamente col marito a Fonzaso, nel bellunese.
Ricordo che mia madre, un giorno particolarmente in affanno per mio padre richiamato in guerra e per mia sorella Iolanda, ancora in fasce e gravemente ammalata, se la prese con Mussolini, addebitandogli anche colpe che non aveva. Giunta all’acme della sua filippica, prese il busto di gesso del Duce che troneggiava sul comò e lo scagliò con violenza sul pavimento, mandandolo in frantumi. Signora Agnese, atterrita all’idea che qualcuno potesse accorgersi del “misfatto” (la guardia municipale abitava di fronte a casa nostra), chiuse precauzionalmente le finestre e, armatasi di scopa, ripulì la stanza dei cocci, che provvide subito a interrare nel cortile retrostante.
1 - continua |
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Ultimo aggiornamento Giovedì 07 Gennaio 2021 11:55 |