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Ricordi di viaggio: ho visto un re! PDF Stampa E-mail
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Venerdì 17 Luglio 2020 11:44

Al volante della mia vecchia Seicento e insieme a tre ex compagni di scuola, negli anni Sessanta, passando per la Francia, visitai Spagna e Portogallo, con puntatine a Tangeri, Gibilterra, Andorra e Principato di Monaco - La visita inopinata all’ex Re d’Italia

di Carlo Patatu

Q

uando, insieme a Gianni, Giannino e Giuseppe, concordai l’itinerario del viaggio, nemmeno lontanamente mi passò per la testa che, fra i tanti luoghi e monumenti che avrei visitato, ci sarebbe stato anche l’abbraccio affettuoso a Umberto di Savoia, Re di Maggio, ultimo della dinastia a sedere sul trono al Quirinale.

Fu un’esperienza molto stimolante, della quale conservo un ricordo vivo. Visitammo due paesi sotto regimi fascisti, Spagna e Portogallo, rispettivamente governati col pugno di ferro dai dittatori Francisco Franco (1892-1975) e António de Oliveira Salazar (1889-1970). In più, strada facendo, ci concedemmo qualche digressione sul percorso programmato.

Di una di queste mi piace parlare. Perché, sebbene imprevista, si rivelò straordinaria e persino commovente. Lo dico da repubblicano convinto che, studiando un po’ la storia, non ha amato i rampolli di Casa Savoia.

Bene. Dopo Barcellona, Valencia, Torremolinos, Alicante, Malaga, Gibilterra, Algesiras, Tangeri, Granada, Cordova e Siviglia, giungemmo a Lisbona. Città affascinante, gente cordiale, ottima cucina e prezzi in linea con le nostre tasche. Che non erano piene.

Una sera, esaminando la carta stradale per definire il percorso che ci avrebbe portato a Nord fino a Oporto, ci rendemmo conto che, a poco meno di quaranta chilometri, lungo la costa stava la cittadina di Cascais. Tutti e quattro strabuzzammo gli occhi per la sorpresa.

“Cascais!”, esclamai di botto, “Perché non ci facciamo una capatina?”.

- A fare che? -, disse subito Gianni, il più anziano del gruppo e investito dell’onere di gestire la cassa comune.

“A visitare l’ultimo Re d’Italia”, replicai serio.

- Ma quando mai! -, ribatterono all’unisono i tre; - di re e regine abbiamo le tasche piene. Ci hanno ossessionato per anni spuntando da ogni pagina dei manuali di storia. E poi, proprio tu, socialista militante e repubblicano convinto, fai una proposta del genere? -.

“Ma che c’entra?”, risposi. “Si tratta di guardare in faccia a un pezzo della nostra storia. Abbiamo visitato tanti monumenti e musei: vediamone uno vivente. Non mi pare che ci sia da scandalizzarsi”.

Si arresero.

L’indomani mattina, presa la strada costiera che volge a occidente, giungemmo a Cascais. Acquistando le usuali cartoline da inviare a casa e agli amici, chiedemmo dove si trovasse Villa Italia. Ci fu risposto di proseguire ancora lungo la costa per qualche chilometro dopo il centro abitato. Non c’era da sbagliare. E così fu.

Devo premettere che, durante il percorso, discutemmo sul come rivolgerci a Umberto di Savoia, ammesso che ci ricevesse.

“Io non mi sento di chiamarlo Maestà!”, disse subito Gianni, mettendo la mani avanti.

- Beh! -, azzardò Giuseppe, - potremmo chiamarlo “dottore” -.

“Macché dottore!”, sentenziò Giannino; “per quanto ne so, nessun Savoia ha conseguito una laurea”.

- D’altra parte -, replicai serafico, - non mi pare il caso di chiamarlo signor Umberto o signor Savoia!...”.

Decidemmo di… non chiamarlo; di rivolgerci a lui in modo impersonale.

Villa Italia era una costruzione massiccia, due piani fuori terra e mansarda. In faccia all’oceano. Per accedervi, alcuni gradini, sui quali si apriva il portone. Tutt’intorno, un parco ben curato con numerosi alberi, siepi e fiori. Il cancello aperto lasciava intravedere il viale che portava all’edificio. Nessuno di guardia. Al di là della palazzina, un giardiniere curava una pianta e, sulla sinistra, un’altalena sulla quale giocavano due bimbe vigilate da una governante.

Che fare?

Nessun campanello per avvertire della nostra presenza. Entrare ugualmente? E se poi spuntava un cane da guardia? Mah! Ci facemmo coraggio e c’incamminammo a passo lento lungo il viale. Subito dopo, comparve davanti all’ingresso una graziosa signorina, grembiule nero, grembiulino bianco con pettina e crestina di pizzo sul capo incorniciato da una chioma nera fluente.

- Buongiorno signori! Siano i benvenuti a Villa Italia. Hanno un appuntamento? -.

“No, non abbiamo un appuntamento. Siamo di passaggio a Lisbona e abbiamo pensato di fare una visita e salutare…”.

Salutare chi? Non lo dicemmo; ma la giovane comprese ugualmente.

- Di solito, Sua Maestà riceve per appuntamento. Tuttavia nessun italiano mai è andato via senza potergli stringere la mano. Si accomodino, ne riferirò al Conte di Torino, cerimoniere e segretario di Casa Savoia -.

Ci fece accomodare in una sala arredata con sedie in stile, poltrone e una lunga teoria di quadri che ritraevano personaggi illustri del casato. Insieme a noi, in attesa di essere ricevute, due coppie di mezza età, agghindate di tutto punto. Marsina e papillon per i signori, abito nero lungo con veletta ugualmente nera sul capo per le signore. In contrasto netto con i nostri jeans e magliette, sgualcite e a maniche corte.

Dopo un po’ si aprì la porta posta sulla sinistra della sala e comparve una coppia accompagnata da un signore anziano, distinto ed elegantemente vestito di blu. Era il Conte di Torino. Che accompagnò i due all’ingresso, li salutò in francese con fare cerimonioso, scatto di tacchi e baciamano. Dopo di che, introdotti due dei quattro in attesa, venne da noi.

- Desiderano essere ricevuti? Non sarà facile: Sua Maestà oggi ha un programma fitto d’impegni; ma, se lor signori avranno pazienza, sono certo che farà di tutto per salutarli -.

Poi arrivarono altre persone, che evidentemente avevano chiesto e ottenuto udienza. Dopo una ventina di minuti, ricomparve il conte-segretario. Che, come già aveva fatto in precedenza, finito il colloquio accompagnò i signori e li salutò seguendo il consueto cerimoniale. Quindi, invece di rivolgersi agli altri in attesa ed elencati nella lista delle udienze, si rivolse a noi dicendo:

- Prego, Sua Maestà vi aspetta -.

Entrammo in un salone con divani e poltrone, mobili d’epoca, tanti quadri, lampadari di pregio, tappeti preziosi e tendaggi che filtravano discreti la luce abbagliante del sole. Un signore distinto, alto e sorridente ci venne incontro con la mano tesa e ci abbracciò con calore, facendoci poi accomodare su due morbidi canapè. Quindi afferrò con energia una poltrona e la trascinò dalla nostra parte, perché potesse starci vicino. Dandoci del tu, ci sottopose a una lunga fila di domande del tipo come vi chiamate, da dove venite (te di dove sei?), cosa fate e così via.

Insomma ci mise a nostro agio e noi rispondemmo senza patemi ed esitazioni; ma non prima di esserci scusati per il nostro abbigliamento, di certo non adeguato alla circostanza.

- Beati voi che ve lo potete permettere -, fu la risposta, incorniciata da una risata schietta.

A mano a mano che citavamo un paese o una località della nostra Sardegna, mostrava di saperne qualcosa o di esserci andato in visita. Tutto pareva filare liscio fino a quando non chiese di conoscere la sede della mia scuola.

“Platamona!”.

- Platamona?!... Non ho mai sentito questo nome -.

“Si tratta della spiaggia di Sassari…”.

- Perché, Sassari ha una spiaggia? -.

“Si”, risposi, “è stata scoperta dopo che lei…”. E qui mi fermai imbarazzato. Non sapevo come proseguire.

- Ho capito… -, replicò sorridente, liberandomi da una situazione oltremodo sgradevole.

Prima di riabbracciarci con effusione, ci raccomandò caldamente di educare i nostri scolari all’amore per la Patria e fedeltà alla Repubblica. Poi ci accompagnò all’uscita col volto che mi parve velato di malinconia.

Insomma, avevo visto un re. Che, è vero, aveva regnato poco più di un mese, a Maggio e una settimana di Giugno 1946. Ma era stato pur sempre un re. Poi, diventato un borghese immalinconito, si ritrovava impegnato a ricevere signori, nobili e nostalgici della monarchia; chiuso in una gabbia dorata che della Patria, ormai definitivamente perduta, conservava soltanto il nome: Italia.

Ultimo aggiornamento Sabato 18 Luglio 2020 17:21
 

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