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Una storia triste di emigrazione |
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Venerdì 03 Gennaio 2020 13:15 | |
Raccontata da Franco Sechi, poeta e cantautore chiaramontese in limba, ha ottenuto un ambito riconoscimento nell’ambito di un concorso bandito dal Messaggero Sardo di Franco Sechi Leggiamo sull’ultimo numero del Messaggero Sardo (Dicembre 2019) che il nostro concittadino Franco Sechi, scrittore, poeta e cantautore in limba, ha ricevuto il terzo premio partecipando, con un racconto, al concorso indetto dalla stessa rivista e avente per tema Storie dell’emigrazione sarda.
Pare opportuno specificare che al vincitore del primo premio sono stati assegnati 63 punti su cento e al secondo 62. Pertanto riteniamo che Franco debba reputarsi, come del resto lo siamo noi, più che soddisfatto del risultato conseguito in una manifestazione che, dato l’argomento, ha avuto risonanza internazionale. Siamo lieti, perciò, di congratularci con lui, formulandogli auguri di buon lavoro per altre e ancor maggiori soddisfazioni. Segue il testo del racconto, (c.p.)
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Una madre, un padre, un figlio.
iglio mio caro, ora siamo soli, si siamo rimasti soli, il babbo non c'è più, non c'è più "sa trae de domo", il sostegno, la sicurezza; no, non c'è più. Non me l'hanno fatto vedere, mi han detto che la bara l'hanno dovuta sigillare per ragioni di sicurezza sanitaria; non è vero, non me l'hanno fatto vedere perché non era rimasto niente, o forse quel poco che era rimasto, quell'accumulo deforme e nero come sughero bruciato era inguardabile...
Tuo padre ci teneva molto farti studiare, aveva capito che il sapere era l'unica soluzione per uscire dalla miseria, ed è per questo che è partito in Belgio. Me lo diceva, sognava (di) vederti vivere una vita priva sacrifici. Voleva scriverti una lettera, una lettera postuma però, una lettera che lui ti avrebbe dato quando sarebbe rientrato definitivamente a casa. Purtroppo non è andata così. La lettera però è stata trovata dalle autorità nell'armadietto di tuo padre e mi è stata consegnata. Come fu intenzione di tuo padre, te la darò quando sarai grande, quando passeranno tanti anni così da alleggerire questo dolore che preme nel mio petto, questo dolore che però non passerà mai, come l'assenza, il per sempre, vuol dire... mai.. Questa è la lettera scritta da tuo padre vent'anni fa, una settimana prima della tragedia di Marcinelle.
Nonostante il lavoro in miniera sia una tortura, quando ho il tempo libero vado nella grande città, guardo le vetrine luccicanti, guardo la gente elegante sottobraccio, le macchine bellissime, anch'esse luccicanti; non come da noi in paese: due macchine. Vedere tutto questo mi fa pensare: ma com'è possibile? Siamo sulla stessa terra e ci sono differenze così spropositate? Com'è possibile? Vedi, sono ormai tanti anni qua, molte cose le vedo diversamente, non lo so, con più coscienza forse. Questa è una cosa che mi ha fatto bene, uscire dal paese, dalla campagna, dalla nostra quotidianità; vedere com'è la vita qua mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto riflettere come dicevo prima: la città, le persone del luogo, la loro mentalità totalmente diversa dalla nostra; noi poveri, chiusi in luoghi angusti, in paesi poveri, polverosi, case che sembrano dismesse, galline per strada, rigagnoli di ogni sorta; panni stesi agitati dal vento "casteddanu", bambini scalzi, asini legati davanti all'uscio di casa in attesa del padrone. Qua è tutto diverso, tutto. Ho fatto un salto che in due giorni mi ha portato dal medioevo ai tempi moderni.
È la miseria che ci ha portato qua, e venendo qua non abbiamo lasciato solo il nostro paese, abbiamo lasciato i nostri affetti; non sanno cosa vuol dire lasciare a casa la moglie ed il figlioletto di appena dieci anni?! No, non lo sanno; per loro il nostro cuore ha sentimenti diversi dal loro. Invece siamo costretti a stare qua per un lavoro, un lavoro pessimo, faticoso, usurante, in mezzo alla polvere, nel fango, sudati, al buio appena graffiato dalle lampade. Alcuni di noi, dopo pochi giorni di lavoro in miniera non sono ritornati più, si sono spaventati e sono ritornati a casa, hanno preferito la miseria della superficie della loro terra pur di non ritornare a lavorare sotto terra. In tutto questo amaro c'è qualcosa di dolce che magicamente mi copre, una forza invisibile, quella stessa forza che mi tiene comunque legato qua, è una forza che si chiama amore, si l'amore che ho per te, di farti crescere sano, senza doverti cercare il minimo anche solo per mangiare, no, non ti farò fare quella vita, ti darò anche la possibilità di studiare, di diventare una persona che sa capire e guarire le sofferenze altrui, ed il mondo sarà migliore. La cosa più bella è pensare al giorno che te la darò, tu avrai già trent'anni e chissà che sarai.
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Ultimo aggiornamento Martedì 29 Dicembre 2020 11:54 |