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Personaggi: Don Christòvulu - seconda parte |
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Sabato 13 Aprile 2019 11:29 |
Confessore comprensivo, non si scandalizzava per i peccati commessi dai giovani in materia di sesso, se non per gli eventuali esborsi in danaro a favore delle "signorine" di Sassari - Visse gli ultimi anni in beata incoscienza, convinto che il Papa lo avesse nominato cardinale di Carlo Patatu Quand’era possibile, noi ragazzi preferivamo correre da lui a confessarci. Perché più aperto e comprensivo. Era stato uomo di mondo, in gioventù. Diversamente dal parroco Dedola, non ci caricava mai, per penitenza, la recitazione in ginocchio di trenta o quaranta pater, ave e gloria, per ottenere il perdono dei peccati gravi appena confessati. Neanche se gli confidavamo di esserci abbandonati a qualche mascalzonata non comune o, peggio ancora, di avere peccato più volte al giorno contro il sesto comandamento. Il canonico ci congedava con uno scappellotto, senza umiliarci e con l’immancabile assoluzione. Ma invitandoci caldamente a non più peccare. Pur sapendo che non gli avremmo dato retta. E imponendoci, a suggello del perdono divino, la recita di un solo pater.
Andare a donne era mancanza pur sempre da censurare; ma, in fondo in fondo, la faccenda non era poi così grave, per quel prete. Come ho detto, lui in seminario c’era entrato da adulto; pertanto conosceva bene i fatti della vita. Un privilegio, questo, che solitamente non era concesso ai suoi colleghi. Che si chiudevano fra le mura di un seminario a otto o dieci anni e, fatti salvi brevi periodi di vacanza da trascorrere in famiglia tra casa e chiesa, ne uscivano soltanto dopo aver detto messa. Se prima non cambiavano idea. Pertanto andare a donne, a suo giudizio, si poteva considerarla una debolezza comprensibile; e quindi da perdonare. Ma ridursi al punto di mettere mano al portafoglio, via! La cosa non stava né in cielo né in terra per il nostro confessore. In tal caso, il peccato assumeva una gravità del tutto particolare. Ecco perché, a quel punto, don Christóvulu assumeva toni e atteggiamenti desueti.
Ci fu una nevicata eccezionale, durante un brutto inverno. Le strade del paese, abbondantemente imbiancate e ricoperte da strati insidiosi di ghiaccio, erano percorribili solo a rischio di scivoloni e cadute. Chi poteva se ne stava a casa, accanto al focolare e davanti a un piatto fumante di fave e lardo[4] o di pan’untu[5]. In ogni caso, alle persone anziane era sconsigliato di circolare a piedi. Don Christóvulu, seguendo di malavoglia le raccomandazioni del fratello medico, se ne stette buono buono al chiuso per una decina di giorni, rinunciando persino a dir messa e a rendere le visite consuete agli ammalati. La sua figura imponente, avvolta nella calda mantella a ruota, non compariva in giro ormai da diversi giorni. La cosa non passò inosservata. Alcuni giovani decisero, pertanto, di andarlo a trovare a casa, per salutarlo e chiedergli conto della sua salute. Il gesto fu apprezzato dal vecchio canonico, che li accolse con calore e li fece accomodare nel soggiorno. Il fratello Gavino e la sorella Cicina se ne stavano comodamente seduti dinanzi al focolare scoppiettante, che diffondeva intorno un calore gradevole. Dopo i convenevoli di rito, don Christóvulu chiamò la fedele Mariangela e le ordinò di portare una carraffina[6] di vino. La domestica ricomparve subito dopo con un grande vassoio, una carraffina di vino rosso e i bicchieri. Che erano di cristallo splendente e di ottima fattura; ma di certo più indicati per sorseggiare il vermouth o il marsala, piuttosto che il vino nostrano. In breve, erano di taglia molto modesta. I ragazzoni in visita si scambiarono occhiate significative; ma fecero buon viso a cattiva sorte. Dopo il tradizionale salute!, d’un fiato li vuotarono d’un colpo, quei bicchierini. Quindi, sperando di poter fare almeno il bis, si sprecarono in complimenti, vantando oltre il dovuto le qualità eccezionali di quel vino generoso e dal colore rubizzo, proveniente dalla vigna di Frassos. “È proprio quel che si dice un vino da messa”, sentenziarono concordi. Ma, per quanto gli ospiti si sperticassero nelle lodi, i padroni di casa, pur compiaciuti per gli apprezzamenti, non fecero un solo gesto nella direzione sperata e attesa dai visitatori. Niente bis, dunque. Arrivederci e buona sera a tutti. La visita si concluse così. Quando parlava del Paradiso, ci mandava immancabilmente in estasi. Ma si premurava di ripeterci all’infinito che saremmo andati incontro alla buona sorte soltanto se fossimo morti in grazia di Dio. Il Paradiso, sottolineava spesso, era un dono generoso del Signore; ed era pur sempre sproporzionato, se commisurato alla pochezza dei meriti eventualmente acquisiti da ciascun mortale. Inoltre, sottolineava con forza, quel premio eterno appariva ancora più appetibile, se paragonato alle miserie e alle sofferenze che affliggono l’uomo in questa valle di lacrime. Nella quale, per la verità, il canonico non faceva mistero di trovarsi bene. Anzi confidava che il Padreterno gli avrebbe consentito di restarci ancora a lungo, in questa valle. Talvolta, quando gli capitava di meditare sulla morte, aveva l’ardire di immaginare che, quando il Signore lo avesse chiamato a sé (ma senza prendersi fretta), si sarebbe incamminato sereno per il sentiero celeste, con la certezza che noi, di lassù, gli saremmo andati incontro per accoglierlo degnamente, porgergli il benvenuto e accompagnarlo in trionfo verso la gloria divina. L’idea che, in fatto di età, ci sopravanzasse di una sessantina e passa di anni non lo sfiorava neppure.
Morì a Sassari nel 1957 e fu sepolto a Chiaramonti nella tomba monumentale di famiglia, a conclusione di una cerimonia funebre solenne e partecipata. Noi giovani (io ero poco più che ventenne) facemmo a gara per portarne a spalla la bara fino al cimitero. Un modo come un altro per esprimere affetto e gratitudine a un uomo che, parsimonioso col danaro, fu invece generoso, soprattutto coi ragazzi e coi giovani, quando doveva prestare attenzione ai loro problemi ed esprimere comprensione per le loro immancabili debolezze. Che, evidentemente, erano state anche le sue. E non se n’era scordato mai.
2 - fine
Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 151-160 [2] Demolito inspiegabilmente nel corso di un discutibile intervento di restauro della chiese eseguito alla fine degli anni Sessanta. [3] Lina Merlin, senatrice socialista (1887-1979), fu autrice delle legge omonima che nell’autunno 1958 abolì la prostituzione in quelle che si chiamavano le case chiuse. [4] Un piatto tipico della cucina invernale nostrana. [5] Focaccia, fatta preferibilmente con farina di granturco, abbrustolita sulla graticola, imbevuta di grasso di maiale e accompagnata da salsiccia ancora fresca arrostita in graticola. Si cucina e si mangia contemporaneamente, standosene davanti al caminetto. [6] Caraffa o bottiglia di vetro istoriato e col tappo di vetro; la si usava in presenza di ospiti di riguardo.
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Ultimo aggiornamento Sabato 13 Aprile 2019 13:24 |