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La mia prima volta con Fabrizio De André – 515 storie PDF Stampa E-mail
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Venerdì 18 Gennaio 2019 13:08

Nella seconda edizione ampliata del volume a cura di Daniela Bonanni e Gipo Anfosso, anche uno scritto del giornalista sardo-pavese Paolo Pulina


Nel pomeriggio di venerdì 11 gennaio scorso (a vent’anni esatti dalla scomparsa di Fabrizio De André) è stata presentata in anteprima a Pavia la seconda edizione ampliata del volume su De André, edito da Ibis.

Le storie, che raccontano la propria, personale “iniziazione” al cantautore genovese (come-dove-quando-con chi è successo), da 305 sono diventate 515. Questo interesse sempre vivo testimonia il fatto che De André è ancora amato e presente nel nostro immaginario collettivo: di fatto si conferma essere sempre più il “filo rosso” che unisce vite e generazioni. Tanta è la voglia di raccontare e raccontarsi in rapporto al mitico Faber – dichiarano i due curatori –, che sono stati chiamati a presentare la prima edizione del libro in tutt’Italia e lo hanno fatto in osterie, biblioteche, librerie e in qualche festival letterario.

Scrivono Bonanni e Anfosso: Sono storie scritte da persone di ogni età, dai 10 agli 82 anni. Da persone comuni e personaggi famosi (tra cui musicisti e stretti collaboratori di De André). Tutti inseriti, rigorosamente e molto democraticamente, in ordine alfabetico. Questa edizione, oltre al messaggio pieno d’affetto di Dori Ghezzi, è impreziosita da una introduzione – accurata e appassionata – di Enrico De Angelis. In collegamento con la nuova edizione del libro, in segno di omaggio a Fabrizio De André, si propone l’iniziativa: #deandregoccedimemoria 2019: dedicato a Fabrizio De André. Vent’anni dopo. Si tratta di una proposta semplice: dare un segnale, inserire “frammenti di De André” nelle nostre attività quotidiane. Una canzone, un testo, un pensiero di Fabrizio nella scaletta dei concerti (pop, rock, jazz, rap, musica classica …) per chi è musicista, nelle programmazioni scolastiche per chi è insegnante, nella playlist dell’I Pod, nelle librerie, nelle biblioteche … Ma anche nei negozi e negli uffici in cui lavoriamo. Una sorta di “De André diffuso”, perché mai come ora, in tempi sempre più cinici e disumani, sentiamo il bisogno, la necessità di divulgare la sua musica, la sua poesia, la sua direzione ostinata e contraria.

La giornata pavese in ricordo di De André si è conclusa a Spaziomusica con l’omaggio da parte di diversi cantanti e gruppi musicali. Il cantautore sardo-pavese Antonio Carta ha cantato due pezzi di De André: “Monti di Mola” (testo in gallurese) e “Inverno”; con lui hanno suonato Giovanni Lanfranchi al violino e Matteo Zanesi alle percussioni.

Ed ecco qui di seguito “la prima volta con Fabrizio De André” di Paolo Pulina (Ploaghe, 1948)

Quando uscì, nel 1963, il terzo 45 giri di Fabrizio De André, con i pezzi Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, anche in una classe di quinta Ginnasio del Liceo classico “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, cominciarono subito a circolare – in una specie di samizdat – le parole trasgressive e i contenuti dissacratori di una figura mitizzata nella manualistica storica come Carlo Martello, contenuti molto più “intriganti” di due “licenze poetiche” pur presenti nei versi (Carlo Martello non era re, ma solo “maestro di palazzo” dei re Merovingi; la battaglia di Poitiers avvenne nel 732 nel mese di ottobre, non “nella calda primavera”).

Nel mio paese natale, Ploaghe, vicino a Sassari, in una famiglia di pastori come la mia non era certo disponibile un giradischi né c’erano le possibilità economiche di comprare degli oggetti voluttuari come i 45 giri. Era successo però che, in cambio di numerose forme di formaggio pecorino, una famiglia che stava per emigrare in Francia, nei primi anni Sessanta, ci aveva consegnato una vecchia, ingombrante RadioMarelli e lo Zingarelli, il famoso dizionario della lingua italiana: due strumenti di acculturazione sicuramente non di prima necessità vitale nel luogo di nuova residenza della famiglia costretta all’espatrio alla ricerca di un lavoro.

Avendo potuto ascoltare fortunosamente “Carlo Martello” alla radio anche io potei vantare il “privilegio emozionante” (secondo il ben conosciuto meccanismo del “fascino del proibito”) di aver sentito dalla viva voce di Fabrizio De André quelle “parole brutte” e dissacranti che non potevano non sollecitare l’interesse dei giovani allevati in un contesto socio-culturale (prima metà degli anni Sessanta) di asfissiante pruderie che la studiosa Nora Galli de’ Paratesi si apprestava a documentare addirittura in un volume degli Oscar Mondadori (1969; ma l’edizione originale presso Giappichelli di Torino era del 1964) con un titolo ineccepibilmente scientifico ma veramente ostico per la comprensione da parte di lettori comuni, cioè Le brutte parole: semantica dell’eufemismo. Sicuramente la spiegazione riportata in copertina dell’edizione economica era più intelligibile (“Uno studio sulla censura del linguaggio; l’interdizione verbale operata dall’inconscio, dal pregiudizio, dal pudore e dalla convenienza; le parole proibite nell’italiano, nei dialetti, nei gerghi”) anche rispetto al sottotitolo originale che era “L’eufemismo e la repressione verbale: con esempi tratti dall’italiano contemporaneo”.

Da allora Fabrizio De André per me ha significato “trasgressività” e nel clima di rivoluzione sessuale inaugurato nel 1968 dal movimento studentesco la “favola d’amore” intitolata La canzone di Marinella ha trovato la sua più adatta collocazione e valorizzazione, diventando la colonna sonora di molte reali storie d’amore.

Scritta questa testimonianza – racconta Paolo Pulina –, da sardo, in omaggio a De André innamorato della Sardegna, mi sono divertito a tradurre nella variante logudorese della lingua sarda (Faber avrebbe certo apprezzato di più la variante gallurese, quella parlata nei luoghi a lui cari giustappunto in Gallura, ma non è la mia parlata materna…) La canzone di Marinella, in versione ovviamente cantabile.

 

Sa cantone de Marinella

Custa de Marinella est s’istòria bera

chi in d’unu riu at illitàdu in berànu

ma su entu chi l’at bida gai bella

da-i su riu l’at giuta subra un’istèlla.

Sola, chena amméntos de dolore,

vivías chena sónnios de amore,

ma unu re, chena corona e chena iscorta

at tzoccàdu tres bortas a sa porta.

Biancu che-i sa luna at su cappéddu

che-i s’amore ruju at su mantéddu

tue l’as sighídu chena una rajone

comente unu pitzínnu sighit s’abbilòne.

E bi fit su sole e aías ojos beddos

e isse t’at basadu laras e capíddos,

bi fit sa luna e aías ojos istràccos

isse t’at postu sa manu in sos fiancos

et fint meda basos et fint meda risíttos

poi fint solu sos frores bellítos

e sas istèllas ant bidu cun própios ojos

trèmere sa pedde tua pro entu e basos.

E naran poi chi cando ses torràda

in su riu chissà comente che ses falàda

e isse chi non cheria a ti crèere morta

at tzoccàdu àteros chent’annos a sa porta.

Custa est sa cantone tua, Marinella,

chi ses bolàda in chelu subra de un’istèlla

e comente totu sas pius bellas cosas

as vívidu solu una die comente sas rosas.

e comente totu sas pius bellas cosas

as vívidu solu una die comente sas rosas.

Traduzione in logudorese di Paolo Pulina

La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera

che scivolò nel fiume a primavera

ma il vento che la vide così bella

dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore

vivevi senza il sogno di un amore

ma un re senza corona e senza scorta

bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna il suo cappello

come l’amore rosso il suo mantello

tu lo seguisti senza una ragione

come un ragazzo segue un aquilone.

E c’era il sole e avevi gli occhi belli

lui ti baciò le labbra ed i capelli

c’era la luna e avevi gli occhi stanchi

lui posò la sua mano sui tuoi fianchi

furono baci e furono sorrisi

poi furono soltanto i fiordalisi

che videro con gli occhi delle stelle

fremere al vento e ai baci la tua pelle...

Dicono poi che mentre ritornavi

nel fiume chissà come scivolavi

e lui che non ti volle creder morta

bussò cent’anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella

che sei volata in cielo su una stella

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno, come le rose

e come tutte le più belle cose

vivesti solo un giorno come le rose.

Fabrizio De André

Ultimo aggiornamento Venerdì 18 Gennaio 2019 13:32
 
Commenti (1)
Ricordo
1 Venerdì 18 Gennaio 2019 19:45
Francesco Baldino
Ho avuto anche io il privilegio conoscere Fabrizio De Andrè negli anni 90 quando domandavo la Stazione di Aglientu. Aveva casa a Portobello di Gallura. Ho conosciuto praticamente tutta la prima famiglia. Da Cicerone mi ha fatto Enrico Riccardi il compositore della canzone zingara. In precedenza lo avevo sentito in concerto negli anni 70 in Lombardia. Saluti

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