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Terra avara |
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Domenica 02 Dicembre 2018 18:42 |
L’autore, caro amico e compaesano, da qualche giorno ha doppiato felicemente la boa del 90° anno di età. Rinnovando gli auguri, pubblichiamo questa sua poesia in sardo (l’unica da lui prodotta in limba) che si raccomanda anche per l’attualità. (c.p.)
Terra avara, terra ingrata, t’inzenerat, t’allattat e ti creschet, ti ninnat in silenziu: sos amigos ti faghen cumpagnia, su sole t’illuminat sa vida, ti pienat de lughe e de calore. Ma sa terra s’indurit e t’accorzat sa pedde sa pedra ‘e su caminu. M’asa dadu su pane siccu e tostu, e mi che so partidu cando mi l’as negadu. Atera terra m’a’ dadu su pane e-i s’aunzu, ma non m’a’ dadu amigos. Ti dana su trabagliu ma non ti dan calore. E mi mancat sa zente, e mi mancat su sole, e mi mancat su pane cumpanigadu a mele; mele furadu a s’abe in su chercu ‘e Sas Baddes; mi mancat Monte Ozzastru e tottu s’orizzonte de unu mundu fadadu chi arrivit a su mare. Mi mancat su trainu chi mi daiat a bier un’abba cristallina pura che bena ‘e monte. Custas cosas non mancan a chie non b’est naschidu. Eo chi so andadu fora so furisteri in Franza. Fizzu meu est inoghe e deo resto cun isse. Sa mama non si movet, timet de non torrare. Diffizile est m’abituare a-i custa situasione: so comente in presone senza poder fuire.
Traduzione in italiano, a cura dell’autore
È la sola poesia che ho scritto in lingua sarda, una cinquantina di anni fa.
Nel 1969 ero a Vichy. Una sera, dopo aver passato il pomeriggio nel parco dei Celestins, dove c’è anche una sorgente di acqua curativa, ero risalito in macchina e stavo per partire, quando sentii urlare “Sassari, Sassari”. Guardai nella direzione della voce e vidi un uomo che aveva letteralmente buttato la bicicletta nella cunetta e correva verso di me. Lo aspettai. Mi si sedette accanto nella macchina e mi raccontò. Era un sardo emigrato in Francia, muratore. Si era sposato con una francese, dalla quale aveva avuto un figlio. Sarebbe voluto tornare in Sardegna, ma la moglie e il figlio non volevano. “Fosse solo mia moglie sarei tornato, ma mio figlio non posso lasciarlo”, mi disse. Parlammo a lungo, sempre in sardo, e mi raccontò tante cose. Vi era nelle sue parole struggente nostalgia e il rimpianto di non poter tornare al suo paese. Ci salutammo con un grande abbraccio, uniti da un’intensa commozione. Tornato all’albergo, mi sentii talmente coinvolto nelle sue vcende che ne scrissi, di getto, un racconto breve, in sardo, in una specie di prosa poetica, una poesiola. L’anno scorso, sfogliando tra i miei appunti, ho ritrovato quel foglio. Ho rivissuto un po’ quella scena e tanti pensieri mi sono venuti in mente. Oggi siamo divenuti terra d’immigrazione per chi sta peggio di noi; ma allora tanti sardi hanno dovuto cercare lavoro altrove. Ricordo quante volte, girando in macchina nelle ore libere, le macchine che mi si sono affiancate e mi hanno gridato “forza Sardegna” o mi hanno spinto sulla destra a fermarmi per il piacere di parlare in sardo, sia pure per pochi minuti. Quai tempi sembrano tanto lontani, irreali, e i giovani non ne hanno conoscenza; ma quelle emozioni non si possono dimenticare.
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Terra avara
Terra avara, terra ingrata, ti genera, ti allatta, ti fa crescere, ti culla il suo silenzio, gli amici ti fanno compagnia il sole ti illumina la vita, ti riempie di luce e di calore. Ma la terra si fa dure e le pietre del cammino ti incalliscono la pelle. Tu mi hai dato il tuo pane secco e duro, e me ne sono andato quando me l’hai negato. Altra terra mi ha dato il pane e il companatico, ma non mi ha dato amici. Ti danno il lavoro, ma non ti dan calore. E mi manca la gente e mi manca anche il sole e mi manca anche il pane che mangiavo col miele; miele rubato alle api nella quercia di Sas Baddes, mi manca Monte Ozzastru e tutto l’orizzonte di un mondo fatato che arriva fino al mare. Mi manca il ruscelletto che mi dava da bere un’acqua cristallina, pura come acqua di monte. Queste cose non mancano a chi non ci è nato. Io sono andato fuori e sono straniero in Francia. Mio figlio è qui e io resto con lui. La mamma non si vuol muovere, teme di non tornare. Difficile è abituarsi a questa situazione; sono come in prigione senza poter fuggire.
Cfr. NICOLA BRAU, Qualcosa a Qualcuno, Sassari 2017, pagg. 29-31.
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Ultimo aggiornamento Domenica 02 Dicembre 2018 19:08 |