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Don Masala – quarta e ultima parte |
Lunedì 23 Marzo 2015 18:09 |
di Carlo Patatu
Poco prima che finisse la guerra, grazie ai buoni uffici di monsignor Arcangelo Mazzotti, arcivescovo di Sassari[1], don Masala si trasferì a Roma e vi conseguì la laurea presso la pontificia università Gregoriana. Quindi, sotto l’ala protettrice del cardinale Alfredo Ottaviani, allora potentissimo prefetto del Sant’Uffizio, fece carriera fino a conseguire la carica prestigiosa di giudice rotale. Ironia della sorte: da prete semplice era stato chiamato a benedire le nozze indissolubili di tante coppie; come magistrato della Sacra Rota, acquisito il titolo di monsignore e conquistato il privilegio di calzare scarpe con le fibbie d’argento, aveva il potere di annullare quelle unioni già dichiarate indissolubili, benedette da altri sacerdoti come lui. E che, stando all’impegno assunto solennemente dagli sposi inginocchiati davanti all’altare, dovevano durare... finché morte non ci separi!
Dopo il conseguimento della laurea e in attesa di trasferirsi stabilmente nella Città del Vaticano, tornò in paese. Soltanto per qualche mese e ancora come viceparroco.
Fu allora che mi si propose come padrino.
Mia madre ne fu felice e diede subito il consenso. Senza nemmeno interpellarmi. Ma io non ero per niente d’accordo. Il motivo stava nella stima, allora scarsa, che avevo di lui (ma poi fui perdonato) per via di quella sua destrezza nel recitare le orazioni.
Faccio un esempio.
Durante la funzione in suffragio delle anime dei defunti, a un certo punto il prete intonava a voce alta o cantando: Pater noster...[2]. E qui tutti i fedeli (ma anche l’officiante) proseguivano mentalmente con la recitazione di quella preghiera. In latino, ovviamente. Giunto alla fine, il sacerdote riprendeva a voce alta: ...et ne nos inducas in tentationem...[3]; al che i presenti rispondevano: ...sed libera nos a malo, amen[4].
Ebbene, io non ero ancora giunto a metà dell’orazione, quando lui, immancabilmente, l’aveva già conclusa. Il dubbio che, pregando, potesse prendere una scorciatoia non finiva mai di assillare la mia coscienza di bambino devoto. Un dubbio che era quasi certezza. In breve, avevo sposato l’idea che don Masala si prendesse la libertà di confidare un po’ troppo nella misericordia del buon Dio. Al quale era comunque già noto il contenuto della preghiera che andava recitando. Come pure l’intenzione che l’accompagnava.
Mia madre, alla quale avevo finito col manifestare le mie perplessità e ansie, si faceva in quattro a spiegarmi che, non avendo ancora studiato il latino, io non potevo procedere che lentamente nella recitazione del Pater noster. Ma le sue argomentazioni, per quanto condivisibili, non riuscirono a convincermi. Da qui la mia ritrosia ad accettare come padrino uno che tagliava la coda alle orazioni. Ed era pure prete!
La cresima, ovviamente, fu celebrata come vollero mia madre e don Masala. Il quale si adoperò per organizzare la cerimonia. Che fu intima, riservata esclusivamente a me e a compare Faricheddu[5], mio amico d’infanzia e altro suo figlioccio. Ci accompagnò entrambi a Sassari, dove fummo ricevuti in udienza privata dall’arcivescovo. Quella fu per me e per il mio amico una giornata speciale, coronata da un’abbuffata di paste presso l’antica e rinomata pasticceria Zirano, in via Canopolo.
Continuando a frequentarlo da adulto, imparai a conoscerlo a fondo e a volergli bene.
Ebbi modo di apprezzarne le doti di grande umanità e di simpatia, oltre che la vasta cultura. Andai più volte a trovarlo in Vaticano, a casa sua. Padrino Masala ne fu felice, mi accolse con grandi effusioni e mi mostrò con orgoglio la bella vista su piazza San Pietro, sul cui lato sinistro si affacciavano le finestre del salone. Era dirimpettaio del Papa, nientemeno.
Eppure non perse mai l’abitudine di tornare a Ploaghe almeno una volta l’anno. Per seguire i primi passi della sua creatura: la fondazione Opera San Giovanni Battista. Ma anche per ritrovare i suoi compaesani e abbandonarsi ai ricordi dei tempi passati.
Ne approfittava, allora, per chiedermi di accompagnarlo a Chiaramonti. Per riabbracciare i miei familiari, che gli erano rimasti affezionati (i miei due figli pendevano dalle sue labbra); ma anche per rivisitare luoghi e persone che, quand’era giovane e povero, gli avevano riscaldato il cuore.
Gli piaceva anche riandare al muretto che il cavallo innamorato del barrocciaio aveva superato con agilità per saltare felice sulla splendida murina. Bei tempi, diceva. E, manco a dirlo, gli scappava una risata sonora. Di quelle contagiose.
4 – Fine
Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pagg. 87-95
[1] Un francescano dall’aspetto burbero, ma con un grande cuore, che resse l’archidiocesi turritana dal 1931 al 1961, anno della sua scomparsa. [2] La preghiera del Padre nostro. [3] ...e non c’indurre in tentazione... [4] ...ma liberaci dal male e così sia. [5] Salvatore Soddu; Faricheddu, in lingua sarda, è vezzeggiativo di Salvatore. |
Ultimo aggiornamento Lunedì 23 Marzo 2015 18:46 |