Ecco perché l'itinerario della carovana dei musicanti doveva essere predisposto con criterio e con ragione ragionata. Si racconta che in altri tempi, molto lontani dai miei, non mancarono episodi d'intolleranza. Qualche genitore, un po' su di giri, si era affacciato alla finestra in braghe e aveva accolto i cantori imbracciando la doppietta. Che allora non mancava mai nelle case dei nostri nonni. Magari quelle persone scortesi si erano limitate a sparare in aria; ma sempre di fucilate si trattava. Per di più, con le strade ancora prive d'illuminazione, chi stava sotto la finestra non poteva indovinare la direzione degli spari. Meglio squagliarsela, quindi. E possibilmente in fretta. Niente spari, ai tempi miei. Nella peggiore delle ipotesi, si poteva rimediare un bagno. Chi non gradiva omaggi canori in edizione notturna poteva salutare cantanti e chitarristi con secchiate d'acqua, provocando così un fuggi fuggi generale. A questo contrattempo i giovani ponevano rimedio scegliendo di sostare in posizione defilata, fuori dalla portata del secchio. Ma non era sempre possibile. E così non restava che confidare nella buona sorte.
In paese c'erano dei gruppi di giovani bene organizzati; che vantavano chitarristi di prim'ordine e voci niente male. Essi, pertanto, potevano concedersi il lusso di cantare anche in sardo. Il canto in re era il più adatto per affidare a una bella voce messaggi, sospiri e lamenti d'amore. Quel canto melanconico, struggente e carico di passione riusciva immancabilmente a far breccia nei cuori femminili. Persino nelle giovinette più restie al corteggiamento e alle profferte amorose. D'altra parte, non era facile restare indifferenti dichiarazioni canore esplicite del tipo ...inoghe mi faghet die, cantende a pramm'adorada; tue in su lettu corcada e deo frittu che nie... Poi c'erano i muttos6 che, con un ritmo più allegro e cadenzato, incontravano ugualmente il gradimento delle ragazze. Grazie anche ai testi, tratti più spesso dal repertorio tradizionale; ma composti pure all'impronta, personalizzati e adattati alla circostanza.
Fra gli amici del mio gruppo non c'erano voci particolarmente dotate, né chitarristi abili. Il solo in grado di strimpellare la chitarra era Claudio Ferralis. Al quale occorrevano sempre tempi biblici per accordarla. Non era mai soddisfatto dei risultati (peraltro sempre modesti) che riusciva a conseguire, a dispetto della serie infinita di prove cui si sottoponeva con pazienza certosina. Gli amici del gruppo, già bell'e pronti da un pezzo per iniziare il giro, in quell'attesa forzata non mancavano mai di spazientirsi. Ma dovevano fare buon viso a cattiva sorte, non potendo mandare al diavolo quel chitarrista, come spesso avrebbero voluto. Sulla piazza non ce n'era disponibile uno migliore. Anche per questo motivo, i miei compagni e io evitavamo prudentemente di cimentarci col canto sardo, di certo più impegnativo. Ci limitavamo a rivisitare il repertorio canzonettistico di Luciano Taioli, Achille Togliani, Nilla Pizzi, Claudio Villa. Le canzoni prescelte, le cui strofe rimavano immancabilmente con cuore, amore e dolore, potevano essere eseguite anche in coro. In tal modo, potevamo nascondere più agevolmente le inevitabili magagne dovute alla nostra povertà vocale. Ma conseguendo ugualmente il risultato da noi desiderato.
Col passare degli anni, fece la comparsa anche da noi il giradischi elettrico, che risolse il problema delle belle voci che non c'erano e ci permise di arricchire il nostro repertorio, con l'espansione del numero delle canzoni da dedicare alle nostre belle. Inoltre il volume del concertino poteva essere regolato con facilità estrema e a piacimento. Il che non era cosa da poco. Ma occorre precisare che risultava abbastanza scomodo portarsi appresso un radiogrammofono con annessa pila di dischi a settantotto giri. Pesanti e voluminosi. Inoltre, per alimentare quelle macchine ingombranti e poco maneggevoli dovevamo fare i salti mortali. Ricordo che si riusciva persino a rubare la corrente elettrica dalla rete esterna, dotata allora di fili che scorrevano bassi e sostenuti da mensole di ferro con isolatori in porcellana. L'impresa non era sempre facile, ma ci si riusciva. In questi casi, non si poteva fare a meno di restare abbondantemente fuori dalla portata di eventuali secchiate d'acqua. Un conto era rimediare una doccia indesiderata e tornare a casa con gli abiti bagnati; ben altro era rovinare il giradischi. Che più spesso era un bene, non personale, ma di famiglia. Quanta fatica, ragazze mie! E tante volte per nulla.
Nei giorni di festa, i giovanotti andavano in chiesa a missa manna e, standosene accanto a uno degli altari della navata destra, scambiavano con le signorinette sguardi appassionati ed eloquenti. Dai quali non era difficile desumere se l'omaggio canoro della notte precedente aveva raggiunto il bersaglio e conseguito lo scopo. Tutto ciò al prete non andava e genio. E nemmeno ai benpensanti di cui ho detto prima. Costoro non gradivano nemmeno che, nottetempo, bande di disturbatori se ne stessero in giro per le strade a indurre in tentazione le ragazze, oltre che ad attentare alla quiete pubblica. E dire che di quiete in paese ce n'era (ce n'è ancora) fin troppa. Sia pubblica che privata. Il traffico automobilistico era pressoché inesistente; gli apparecchi radio erano una decina. La televisione era un oggetto misterioso. Figurarsi la noia.
Fu così che i carabinieri, comandati di pattuglia nei fine settimana e nelle notti di vigilia, facevano la ronda per le strade con attenzione degna di miglior causa; pronti ad accorrere al minimo strimpellare di una chitarra, per poi piombare sui canterini malcapitati. Che dovevano subire l'onta del sequestro dello strumento, oltre che della redazione del verbale di denuncia. Cui seguivano la convocazione in pretura a Nulvi e il pagamento di contravvenzioni salate. Per tacere degli strascichi in famiglia, inevitabili e antipatici. E poiché alcuni irriducibili non intendevano cedere le armi di fronte al diktat imposto dalle forze dell'ordine, le serenate continuarono ancora per un po'. Con qualche precauzione in più. Ma fu tutto inutile. Tant'è che, nel volgere di pochi mesi, l'ufficio dei corpi di reato della pretura nulvese si riempì di chitarre, mandolini e fisarmoniche. Come un negozio di strumenti musicali. Ecco perché la parola fine comparve inevitabilmente e anzitempo sulla strada che, in questo paese e per molti anni, i giovani di molte generazioni avevano percorso, sulla scia di una tradizione antica, simpatica e gradita ai più. E della quale la gente della mia età continua a parlare con tanta, tanta nostalgia. I giovani d'oggi probabilmente non possono nemmeno immaginare cosa fossero le serenate di cui parlo. Peccato. Soprattutto per le ragazze. Anch'esse non hanno idea di che si trattasse. Provino a chiederne conto alle loro nonne. Sono sicuro che gliene parleranno con piacere. Non mancando di commuoversi, naturalmente. (Fine)
Da: Carlo Patatu, Scuola, Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007
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