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Personaggi: Su Duttoreddu PDF Stampa E-mail
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Lunedì 07 Febbraio 2011 12:30

di Carlo Patatu

"Su Duttore" per noi è (da sempre) il medico di famiglia. Colui che, per vicissitudini tristi o liete, entra nelle nostre case. Immancabilmente, nessuna esclusa. E delle quali finisce col conoscere gli angoli più riposti. Come pure viene messo a parte dei nostri malesseri. Del fisico e dello spirito, visibili e non. Delle nostre fisime e finanche delle nostre miserie.

In breve, un personaggio di rilievo. Che, da queste parti e non di rado, assurge al ruolo di figura carismatica. Conquistando così un prestigio difficilmente riscontrabile in altre autorità o figure professionali del luogo.

"Su Duttore" della mia famiglia, quand'ero bambino, era il nobile chiaramontese don Gavino Grixoni (1881-1970). Cui nessuno, in paese, si sognava di rivolgersi col titolo nobiliare che il censo gli aveva assegnato in dote. Ma scegliendo quello più pragmaticamente importante (e da lui più gradito) legato alla professione: "Su Duttore", appunto. Ma soltanto in sua presenza. Parlandone fra noi (grandi e piccoli) l'uomo era più noto come "Su Duttoreddu".

Il diminutivo, presumo, non era legato alle sue qualità professionali; che, per quanto ne so, non si discostarono dalla media dei suoi colleghi del tempo. Ma, sicuramente, per distinguerlo da suo padre, il nobile dottor Francesco Grixoni (1835-1906). Anch'esso medico condotto a Chiaramonti negli anni a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento. E che, sia detto per inciso, qui sposò la benestante Vittoria Falchi (1852-1906), sorella dei più noti dottor Giorgio[1], professor Francesco, Battista e Nicolò, tutti figli di Cristoforo e di Maria Madau.

Di corporatura solida e statura media, ricordo "Su Duttoreddu" vestito sempre di nero, l'immancabile bastone con manico a "u" appeso all'avambraccio sinistro. Per copricapo un cappello di panno ugualmente scuro e sbiadito. D'inverno indossava il solito pastrano di lana dai risvolti rivestiti di pelliccia consunta, scolorita e spelacchiata. Era tanto ricco quanto parsimonioso, qualità che lo accomunava al suo fratello canonico don Christovulu[2] (1874-1957) e a quella pia donna che era sua sorella donna Cicina (1876-1975). La cura dell'abbigliamento non stava in cima ai suoi (ai loro) pensieri.

Taluni attribuivano il suo vestire di scuro all'essere rimasto vedovo ancor giovane. Sua moglie Anna Maria, una Sussarello originaria di Sassari, anch'essa di famiglia nobile[3], morì dando alla luce il primo e unico figlio, Franco. Che, laureatosi in medicina, diventerà primario della clinica Dermatologica dell'Ospedale Civile di Sassari.

L'ambulatorio comunale funzionava in una stanza al piano terra della vecchia Casa comunale, in Piatta (oggi via Vittorio Emanuele). Uno stanzone diviso da un tramezzo di mattoni per separare la sala visite da quella d'attesa. Entrambe disadorne e per niente accoglienti. In quei locali grigi e freddi i medici condotti hanno operato sino alla metà degli anni Sessanta. Fino a quando, cioè, la Regione non ha costruito l'edificio di via San Giovanni, ora sede della guardia medica.

Fu "Su Duttoreddu" a curare le lunghe, persistenti e defatiganti febbri malariche che mi afflissero nei primi anni di vita. Mi prescrisse tante di quelle iniezioni di chinino da indurmi a odiare per sempre aghi e siringhe. Ma quelle punture mi salvarono la vita. Fu lui a praticarmi le dolorose vaccinazioni obbligatorie servendosi di un ago enorme (sicuramente spuntato), che non mancava mai di farmi piangere. E non mi era per niente di conforto che non fossi il solo a patire quella vera e propria tortura.

Era fra i pochi che, in paese, leggevano regolarmente "L'Isola", uno dei due quotidiani che si stampavano a Sassari. L'altro era "La Nuova Sardegna". Che però ebbe più d'una disavventura, durante il Ventennio, per i suoi orientamenti marcatamente liberali e antifascisti.

In paese non c'era un'edicola. Le poche copie dei quotidiani citati si poteva acquistarle nel buttighinu di tiu Antoni Lumbardu, noto Brillante. Che vendeva pure "Il Giornale d'Italia" e "Il Telegrafo". Da tiu Paulantoni Pinna il barbiere si potevano comprare "Il Corriere della Sera", il "Corriere dei Piccoli" e "La Domenica del Corriere".

Ma "Su Duttoreddu" il giornale non lo comprava in paese. Gli arrivava in abbonamento per posta. Il che gli procurava un certo risparmio. Ma, invece di attendere che il portalettere tiu Andria Caivone glielo recapitasse a domicilio, andava ogni giorno a ritirarselo personalmente all'ufficio postale. Subito dopo l'arrivo da Martis della carrozza postale di tiu Garibaldi[4].

Dedicava alla lettura del quotidiano qualche ora del mattino e del dopo pranzo. Dopo di che, per un tacito accordo, il quotidiano lo passava a suo cugino, l'orologiaio e fotografo Antonino Falchi[5]. Che non si lasciava sfuggire nemmeno una virgola delle quattro o sei pagine che ordinariamente componevano quel giornale.

Ricordo che, sia pure spiando di nascosto i discorsi degli adulti, riuscivo a captare più d'una critica severa nei confronti di quel medico. Che lo si accusava, non so dire se a torto o a ragione, di essere piuttosto restio a disporre il ricovero di pazienti in ospedale. Alcuni sostenevano che così faceva per consentire ai propri malati di andarsene all'altro mondo dal letto di casa, circondati da familiari e parenti, invece che allettati, soli e senza speranza, in uno stanzone anonimo d'ospedale.

Ma ai maligni, che non mancavano, piaceva accreditare l'ipotesi che, essendo allora i ricoveri a carico del Comune, "Su Duttoreddu" giocasse al risparmio, onde evitare un possibile e conseguente rincaro dell'imposta di famiglia. Che, dato il suo status di benestante, lo colpiva in misura maggiore rispetto alla media dei compaesani. Com'era giusto che fosse, del resto.

Intorno al 1945, a guerra quasi finita, se ne andò in pensione. Ma continuò a vivere in paese, nel palazzotto di famiglia insieme al fratello canonico e alla sorella Cicina. Libero da impegni professionali, si dedicava con passione e competenza, coadiuvato dal fedele mezzadro Giuseppe Truddaju, alla cura dell'oliveto e del vigneto di Frassos, alle porte del paese. Ma anche degl'infiniti cespugli di splendide rose, di gigli profumati e d'una miriade di piante ornamentali.

Molte ore le trascorreva anche a chiacchierare nel negozio di zia Margherita Lezzeri-Cossu, in Piatta, o in quello di zia Felicina Quadu-Budroni, in piazza di Chiesa. Con disappunto grave del macellaio tiu Pedru Pola, tiesino, che aveva la macelleria in quei pressi. E che registrava immancabilmente un calo di clienti quando il dottor Grixoni se ne stava a far crocchio da quelle parti. Sempre attento a stigmatizzare chi, a suo giudizio, comprava la carne senza poterselo permettere. Un lusso di troppo, secondo lui. Pur se, a ben vedere, si trattava di modesta e coriacea carne di pecora. Che arrivava sul banco di vendita macellata per raggiunti limiti di età.

Trascorse gli ultimi anni di vita a Sassari, ospite del figlio e assistito dalla fedele domestica Mariangela Cossu. Completamente cieco. Morì quasi novantenne e fu sepolto a Chiaramonti, nella tomba monumentale di famiglia.

In sua sostituzione, dopo una breve reggenza del dott. Antonio Marcellino, a coprire la condotta medica fu chiamato il dottor Fortunato Busonera, originario di Sassari. Persona cortese, ma di scarso coraggio. Segnatamente quando doveva decidere su casi gravi. Era una sorta di Signor Tentenna. Fu lui a curarmi malamente il pollice della mano sinistra, la cui falange mi fu tranciata in parte dalla macchina per fare la pasta. A casa di nonna Murgia. Ricordo che ci trattava col distacco tipico dei sassaresi verso i biddunculi.

Grixoni usava modi sicuramente rudi, non sempre simpatici. A volte persino arroganti; ma era uno di noi. Che delle cose nostre sapeva tutto. Proprio tutto. E che, da persona educata qual era, mostrava riconoscenza nei confronti di chi gli usava cortesia e rispetto. I primi pani che uscivano dal forno, mia madre li mandava ancora caldi a casa sua. "Su Duttoreddu" non mancava di apprezzare. Ricambiando con le primizie del frutteto-vigneto di Frassos: ciliegie carrafale, uva, vino, olio. Anche se, al di là del bel gesto di mia madre, il dono di un paio di spianate, pur in tempi difficili, a una famiglia agiata come la sua non poteva fare né caldo né freddo.

Ecco perché gli si poteva perdonare (e gli si perdonarono) qualche eccesso di troppo e più d'una diagnosi sballata.



[1] Cfr. CARLO PATATU, Chiaramonti – Le cronache di Giorgio Falchi, ed. Studium adp, Sassari 2004

[2] Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pp. 151-162

[3] La famiglia Sussarello, originaria di Sassari, ottenne la nobiltà nel 1539 grazie a Nicolao de Quesada del ramo principale (sec. XVI - XVII), coniugato con la donzella Giovanna Maria Sussarello. Francisco de Quesada del ramo principale (sec. XVI - XVI), coniugato con donna Caterina Sussarello. Antonio Carlo de Quesada dei Ribadeneyra (1740 - 1805), coniugato, in Ozieri nel 1769, con donna Antonia Sussarello Carta.

[4] Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pp. 99-108

[5] Cfr. CARLO PATATU, Scuola Chiesa e Fantasmi, ed. Gallizzi, Sassari 2007, pp. 163-176

 

Ultimo aggiornamento Lunedì 28 Febbraio 2011 15:46
 

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