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Sos tres Res e-i sa Befana |
Scritto da Carlo Patatu |
Martedì 04 Gennaio 2011 18:15 |
Chi se li ricorda più, a Chiaramonti, Sos Tres Res? Certamente ne ha memoria chi ha passato la quarantina. Ma gli altri? Non hanno vissuto quell’esperienza straordinaria; che conoscono, forse, per averne sentito parlare. Anche perché, fino a qualche anno fa, la Pro Loco si era adoperata inutilmente per rinverdirne la consuetudine, antica quanto il tempo. E sulla quale il tempo stesso, nel suo scorrere lento e inesorabile, ha steso la coltre spessa dell’oblio.
Resiste bene, invece, la figura della Befana. La quale, più che dalla tradizione, trae forza dagli slogan pubblicitari lanciati alla radio, sui giornali e in televisione. Ai miei tempi, la calza coi doni, lungi dall’essere un fatto commerciale, era soltanto un prodotto domestico, frutto dello sferruzzare di mia madre, seduta accanto al braciere nelle lunghe, noiose serate invernali.
I doni che quelle calze contenevano erano poveri: una mezza dozzina di castagne rinsecchite, qualche noce, poche mandorle, tre o quattro fichi secchi e altrettante prugne. Ugualmente seccate al sole e diligentemente conservate in alzios chiusi a doppia mandata. Raramente (molto raramente) qualche pezzo di torrone. Abbondava, invece, il carbone da cucina, non ancora soppiantato dal gas in bombole. Il carbone era la giusta mercede per chi, come me, aveva fatto dannare non poco genitori e insegnanti durante l’anno appena trascorso.
La Befana era solita abbondare col carbone. Che aveva il vantaggio di non essere commestibile. Pertanto poteva tornare al posto dal quale era venuto: la carbonaia. Per poi finire acceso dentro i fornelli della nostra vecchia cucina, placcata con mattonelle lucide verde muschio. Niente caramelle, né cioccolatini. Men che mai arance e mandarini. Tutte cose che ho scoperto a guerra abbondantemente conclusa.
Ma l’avvenimento che polarizzava la mia attenzione di bambino, e che aspettavo con ansia, era la cantata de Sos Tres Res. Gruppi di giovani, ma anche di uomini maturi, giravano per le case, la sera del 5 Gennaio, vigilia dell’Epifania. Cantavano in coro, fuori dell’uscio, con un accordo e un’armonia che per me avevano dello straordinario. Creavano intorno un’atmosfera di magia. Appena interrotta dal suono del battente che, a un certo punto della cantata, quei messaggeri di pace e benauguranti agitavano perché i padroni di casa gli spalancassero la porta. Come d’uso.
Davanti alla porta finalmente aperta, i cantori intonavano la strofa finale “Cust’est una coiletta...”. Come d’incanto, compariva immancabilmente il fiasco del vino, un vassoio coi bicchieri e un cesto ricolmo di frutta secca. Sovente anche sa canistredda con una pila di spianate, formaggio e salsicce. Si brindava insieme, non disdegnando di riporre un po’ di quel ben di Dio in una provvidenziale bisaccia. Che i cantori si caricavano in spalla e che, mano a mano, si riempiva di tutto un po’. Quindi strette di mano e scambio di auguri, col tradizionale “...a un’ater’annu mezus!...”.
Ricordo il trio dei fratelli Sale (Peppinu, Nanneddu e Pedrigheddu), più noti come Frades Drettos. Tiu Peppinu era sa ‘oghe; gli altri due facevano sa contra e su basciu. Riuscivano a creare un’armonia magica. Unu cuncordu che cresceva in qualità proporzionalmente al numero dei brindisi. Ne risultava che le performance migliori quel coretto le forniva verso la fine del giro. Che bellezza!
Salutati Sos Tres Res, mia madre mi metteva frettolosamente a dormire. Vinto dal sonno, mi addormentavo quasi subito. Manco a dirlo, sognavo la Befana che appendeva alla spalliera del letto una calza capace, rigonfia di mendula, prunalda, cariga e nughe; e niente carbone.
Che, al contrario, al risveglio non mancava mai.
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Ultimo aggiornamento Martedì 04 Gennaio 2011 18:58 |